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Il valore della sconfitta

Al triplice fischio di quel Sanremese – Goliardica (2-1), spareggio per l’accesso alla finalissima regionale Allievi U17, riuscii ancora a trattenere le lacrime, cosa che non feci invece una volta rientrato negli spogliatoi quando vidi i volti dei miei ragazzi.
Il nostro viaggio terminava li, in maniera forse immeritata, un viaggio che ci aveva visto iniziare come squadra capace di vincere sole 4 partite in campionato per poi diventare, in un triennio, la terza squadra dilettantistica della Liguria, dopo le più blasonate Savona e Sanremese.
Se parlo di una esperienza personale per trattare l’argomento della relazione con il risultato è solo perché nella mia esperienza da giocatore prima e allenatore poi, non ho mai toccato con mano niente in maniera più concreta. A distanza di tempo ho pensato ancora molto a quella partita, a cosa avrei potuto cambiare, quali scelte avrei potuto prendere in maniera diversa, in quale maniera avrei potuto aiutare maggiormente la mia squadra, fino ad arrivare alla conclusione poi, a Natale dell’anno successivo, quando quel gruppo di ragazzi (che nel frattempo fra chi era salito in Prima Squadra, chi era rimasto in Juniores, chi aveva cambiato
squadra e chi addirittura aveva smesso di giocare, si era disunito) ha organizzato una cena di squadra per il solo motivo di ritrovarsi ancora. Perchè fu quando i ragazzi mi dissero “Mister, vogliamo ricordare quello che per tutti noi è stato l’anno più bello di sempre”, che capii che in fondo qualsiasi soluzione tattica trovata quel giorno sarebbe stata finalizzata a vincere solo quella singola partita, mentre noi, il nostro campionato, lo
avevamo già vinto.

Lo avevamo già vinto perchè lo meritavamo

Il 30 maggio 2013, durante la conferenza stampa alla vigilia dell’ ultima partita con l’Athletic Bilbao, interpellato da un giornalista circa l’eredità che avrebbe lasciato una volta abbandonata la guida dei baschi, Marcelo Bielsa ha dato una masterclass di primo livello sul successo e sul reale valore della vittoria, distinguendo e sviluppando il concetto di risultato conseguito e risultato meritato.

Le valutazioni non devono farsi sulla base di ciò si ottiene ma sulla base di ciò che si merita. Quando facciamo le valutazioni unicamente sulla base di ciò che si ottiene, e ciò che si ottiene non è meritato, si corre un grave rischio di valutazione.

Per rendere il tutto poi ancora più chiaro ha poi offerto a tutti una metafora che ogni allenatore dovrebbe tatuarsi nella mente per non dimenticare mai quello che è lo scopo di ogni formatore, di qualsivoglia età.
“Quando ero piccolo vivevo in un barrio dove il grande risultato era possedere un’automobile, e quanto più lussuosa era l’auto maggiore era il riconoscimento che veniva dato ai suoi proprietari.
Ma noi facevamo anche un’altra distinzione: per noi abitanti del barrio contava anche quello che il proprietario aveva dovuto fare per ottenere l’automobile. C’erano famiglie in cui padre e figlio avevano lavorato duramente per comprare una Seat e altre famiglie che avevano vinto alla lotteria e si compravano una Mercedes. Noi valorizzavamo chi aveva lavorato molto per comprarsi una Seat, non chi attraverso la lotteria guidava una Mercedes.
E’ a partire da questo che ho imparato che non si valorizza ciò che si ottiene, ma ciò che si merita.”

Marcelo Bielsa (30/05/2013) I Prentsaurrekoa I Rueda de Prensa

Quella finalissima mancata noi l’avremmo meritata per molte ragioni: per il fatto che contro di loro sprecammo durante il girone di qualificazione il rigore della vittoria all’ultimo minuto dopo aver dominato la partita, per la qualità del gioco espressa, perché sarebbe stato il giusto riconoscimento ad un gruppo che col tempo era cresciuto in maniera esponenziale, per il fatto che ogni risultato raggiunto lo avevamo sempre conseguito tutti insieme, senza mai lasciare indietro nessuno del gruppo.

Fummo trainati sempre, per tutto il tempo, da poche regole ma principi sani e furono quei valori, sia dentro che fuori dal campo, che contribuirono in maniera formidabile a dar vita all’ anno più bello di sempre.

Perchè, attraverso valori sani, abbiamo cresciuto ragazzi oltre che calciatori

“Ci sono allenatori che ottengono grandi risultati … ma quella è l’unica cosa che ottengono. Non lasciano nulla nell’anima di nessuno. Non lasciano nulla in eredità. Insegnamenti, stile e crescita individuale e collettiva”
Crujff

In un recente seminario organizzato da BBVA, in Spagna, Ettore Messina, il numero uno tra gli allenatori di basket italiani, ha svelato alcuni retroscena della sua esperienza personale in NBA come primo assistente di Gregg Popovich, iconico allenatore dei San Antonio Spurs.

Fra i vari aneddoti raccontati, Messina ha svelato alcune frasi che Pop è solito dire ai suoi giocatori:

"Quello che facciamo è solo pallacanestro. Quello che conta davvero è la vostra famiglia, i vostri figli, non i titoli. Vittorie e sconfitte sono irrilevanti. Quello che fa la differenza è come noi viviamo ogni giorno, in campo, ma anche nello spogliatoio, durante i viaggi, durante le nostre relazioni"

Nella mia breve e poco gloriosa carriera da calciatore non ho mai amato le regole all’interno dello spogliatoio, pertanto, una volta intrapresa la strada di allenatore non ho mai imposto nulla ai miei ragazzi se non il notificare con ragionevole anticipo la loro assenza agli allenamenti che, per rispetto loro e per rispetto del mio ruolo, preparavo con sufficiente anticipo affinché fossero il più utile e dettagliati possibile alle necessità del momento.

Per tutto il resto mi sono sempre e solo affidato al mio e al loro buon senso.

Abbiamo basato ogni nostra relazione, sia interna che esterna, sul rispetto reciproco, abbiamo cercato di essere allenatori, genitori, fratelli maggiori, in taluni casi, parafrasando il titolo di un famoso film “quasi amici”.

Ho cercato di dare attenzioni a ciascuno di loro come ragazzi e non solo calciatori, interessandomi in maniera sincera di scuola, relazioni, dinamiche familiari e non facendo mai mancare loro supporto, materiale o psicologico, consapevole del fatto che certe cose che avrei potuto fare o dire, avrebbero potuto portarsele con loro tutta la vita.

Dal punto di vista del campo poi, abbiamo cercato di costruire una cultura del lavoro tale da stimolare i ragazzi all’autoesigenza, cercando di inculcare loro il messaggio che ogni vittoria sarebbe necessariamente ed inevitabilmente passata attraverso le ore di allenamento settimanale e che, quanto più volevano avvicinarsi ad essa, tanto più avrebbero dovuto non accontentarsi del loro livello raggiunto.

Fu un percorso lungo ed impegnativo, a volte mi dovetti anche far “odiare” dai ragazzi, ma furono sforzi collettivi necessari ed ampiamente ricompensati il giorno in cui, prima di una partita di campionato particolarmente importante, i ragazzi mi chiesero di allenarsi anche al sabato mattina.

Non ho mai finto con loro, non ho mai detto niente di diverso rispetto a ciò che realmente pensavo, nel bene e nel male, facendo però ovviamente molta attenzione al modo in cui esprimevo ogni mio pensiero, cosa che spesso, se non sempre, fa la differenza fra l’essere ascoltati o ignorati.

Ricordo che quando giocavo nella categoria Giovanissimi provai a riservare un tavolo in un ristorante di classe per una cena romantica con la mia ragazzina dell’epoca e quando mi presentai di persona, solo, per prenotare fui gentilmente liquidato dal ristoratore. Molto deluso dall’accaduto mi sfogai nei giorni successivi con il vice allenatore della mia squadra. Non ricordo perché scelsi proprio lui, ma fu la persona giusta perché, dopo avermi ascoltato, al termine dell’allenamento, andò in quello stesso ristorante riuscendo a farmi avere quel tanto desiderato tavolo per la mia cena romantica. Fu un episodio che non c’entrò nulla con il calcio, sicuramente non è stato un gesto che mi ha aiutato a diventare “uomo”, per quanto io quella sera, durante la cena, mi sentissi tale, ma col tempo ho capito che ci sono gesti e parole che possono accompagnare tutta la vita chi le riceve.

Io non ho mai avuto l’occasione di aiutare di aiutare i miei ragazzi a sentirsi adulti per una sera, ma sono convinti di avergli lasciato un pizzico di buoni principi che li accompagneranno per la vita.

Perchè abbiamo trattato vittoria e sconfitta allo stesso modo durante la stagione

Si tende a dire che da ogni sconfitta apprendiamo una lezione, però non è sempre cosi. A volte gli alibi oscurano il processo di analisi, altre volte si tende a voler dimenticare.

Durante quella splendida annata, a dir la verità, di sconfitte dovemmo affrontarne davvero molto poche, ma di certo non trovammo mai nessun tipo di scusa in sede di analisi, analizzando ogni tipo di risultato con cura, cercando di non tralasciare alcun tipo di dettaglio, ed esaminando anche le vittorie con la stessa ottica, consapevoli che dietro ad ogni partita c’era sempre una lezione da imparare.

"Apprendere è come remare controcorrente: quando smetti di remare, retrocedi"
B.Britten

Quello che facemmo, dunque, fu creare un ambiente sereno, in cui la relazione fra vittoria e sconfitta fosse sana, senza che nessuna delle due potesse in qualche modo intaccare i rapporti umani o condizionassero la percezione comune sulla bontà del percorso che tutti insieme avevamo intrapreso.

"...Se puoi sognare, senza fare dei sogni i tuoi padroni; se puoi pensare, senza fare dei pensieri il tuo scopo; se sai incontrarti con il Successo e la Sconfitta e trattare questi due impostori allo stesso modo..."
passaggio della poesia "Se" di Rudyard Kipling

Perchè abbiamo saputo ingoiare veleno

La seconda e ultima volta che mi è capitato di vivere certe emozioni calcistiche al punto da versare qualche lacrima per la mia squadra (che equivale alla prima in ordine temporale), fu l’anno precedente a quello che sto descrivendo.

Eravamo nel pieno di un periodo negativo in cui eravamo entrati in un vortice di sconfitte che ci avevano trascinato a metà bassa classifica, per di più avevamo anche perso per infortuni gravi un paio di giocatori qualitativamente importanti.

Nonostante tutto io ero soddisfatto di quanto esprimevano a livello di gioco i ragazzi in campo e ancor di più dell’atteggiamento, della concentrazione e dell’impegno che notavo in loro, ma avevo paura che  potessero scoraggiarsi e perdere la fiducia nel nostro lavoro, abbandonando la strada intrapresa per una più agevole, qualunque essa fosse.

La partita che dovevamo affrontare non era delle più semplici. Ospitavamo la Tarros Sarzanese, una ostica squadra spezzina guidata da un ottimo allenatore con la quale nacque poi anche un ottimo rapporto di amicizia che ci lega tutt’ora.

Speravo in una vittoria per scacciare questi fantasmi, invece la sentenza del campo fu orribile: 2-5 per gli avversari, un risultato che farebbe pensare ad una debacle ma che invece celava una prestazione ai miei occhi positiva, propositiva, in cui furono alcuni nostri errori, più che una manifesta superiorità qualitativa, a fare la differenza.

Non so cosa fece rimanere aggrappati i ragazzi al nostro percorso, non so cosa li portò a presentarsi il martedì successivo al campo con lo stesso entusiasmo di sempre, mi piace pensare che nonostante tutto fossero coscienti della bontà del nostro lavoro, e forse è realmente così.

Terminammo il campionato a metà classifica, senza infamia e senza lode, ma col senno del poi capii che quelle sconfitte erano necessarie, perché senza di esse non saremmo mai divenuti la squadra capace di arrivare ad un calcio di rigore dalla finalissima regionale e i ragazzi, quasi ometti, che ho lasciato.

Video Bielsa OM veleno