Che cosa è e come nasce lo studio dell’apprendimento motorio?
L’apprendimento motorio è una parte della scienza che studia le capacità di apprendimento e il suo metodo di trasmissione a livello motorio.
Questa applicazione scientifica nasce per spiegare il principio di base dietro alle scelte di un tipo di esercitazione piuttosto che di un altra, senza volersi accontentare del concetto secondo cui “si fa in questa maniera perché è così che si è sempre fatto”.
Nasce all’inizio degli anni ’70, negli USA, grazie agli studi di un professore universitario, Carl McGwon, che si dilettò nel fare l’allenatore di pallavolo e, grazie a questa sua propensione, portò questo suo approccio scientifico allo sport, nello specifico al volley. Nella sua visione, infatti, fare l’allenatore equivaleva, per quantità di decisioni da dover prendere, ad essere uno scienziato, pertanto nasceva la necessità di far si che quelle scelte fossero prese sulla base di determinati principi.
Per lui erano quattro le scienze alla base di tutti i tipi di sport, soprattutto di squadra: statistica, biomeccanica, fisiologia dell’esercizio e leggi dell’apprendimento motorio. Quest’ultima era proprio quella in cui lui era specializzato e sulla base di questa ha voluto studiare come le condizioni di allenamento portino un vantaggio per l’apprendimento di singole abilità dello sport.
Esistono differenze tra sport di squadra e sport individuali?
Si, sport come la pallavolo, il calcio, la pallacanestro e tutti gli altri sport di squadra sono considerati sport di situazione e vengono chiamati open sports, in cui cioè la casistica di situazioni che si possono verificare è molto aperta e variabile.
Ed è proprio il concetto di variabile che è molto importante perché è quello che differenzia il buon metodo dal cattivo metodo.
E' il grado di variabilità ciò che determina il livello di apprendimento all'interno dell'allenamento.
Tanto più l’allenamento crea nel nostro cervello diversi tipi di stimoli, tanto più esso è in grado di trattenere informazioni.
Che cosa succede però se le variabili che proponiamo sono molte?
Quando le variabili sono molte quello che succede è semplicemente che esse richiedono tanto tempo per essere trattenute in una capacità sufficiente per poter apprendere in maniera corretta.
Questo però, che sembra apparentemente un discorso complesso, è in realtà molto semplice, perché è quello che ci capita quando abbiamo a che fare con atleti d’eccellenza e chiediamo loro come hanno fatto ad imparare un qualcosa. La risposta che otteniamo è sempre “giocando”, e mai “facendo questo determinato tipo di esercizio”.
Questo perchè il gioco è la situazione con il maggior numero di variabili
Tutto questo però è legato ad un altro concetto, quello di motor learning, che equivale al concetto di transfert.
In cosa consiste il motor learning e il concetto di transfert?
Il motor learning è riferito alla capacità che si ha di trasferire le informazioni che il giocatore impara all’interno di un esercizio, sia esso situazionale o analitico, all’interno del Gioco. E’ quindi ovvio che la capacità di trasferimento debba essere il più alta possibile. Per provare ad essere il più chiari possibili facciamo un esempio pratico.
Quando parliamo di allenamento possiamo distinguere tre tipologie di esercizi: analitici, sintetici e globali.
I primi sono quelli che si svolgono in maniera individuale concentrandosi su un solo fondamentale alla volta; negli esercizi sintetici vengono invece messi in correlazione due fondamentali; nel globale invece lavoro in situazioni di gioco 6 contro 6.
Prendiamo ora ad esempio un esercizio del primo tipo, con cui, immaginiamo, un allenatore di pallavolo voglia migliorare il bagher in ricezione di un suo giocatore. Questo esercizio analitico lo si può eseguire in maniera molto chiusa, togliendo ogni tipo di variabile e facendo rimbalzare la palla costantemente contro un muro, oppure mettendo il giocatore all’interno di una piccola condizione di lettura della situazione, facendogli per esempio lanciare la palla da un compagno.
In questa situazione, chi riceve, imparerà innanzitutto a leggere i movimenti del compagno, riuscendo a prevedere se arriverà una palla forte, una palla piano, piuttosto che più a destro o più a sinistra; secondariamente dovrà valutare la traiettoria della palla una volta partita (e nel caso del calcio la parte del corpo con la quale controllarla). Questa base di imprevedibilità è esattamente ciò che crea l’apprendimento.
Dunque, più si decontestualizza più il grado di trasferimento è minimo?
Nelle proposte decontestualizzate dal Gioco, il grado di trasferimento è nullo.
Poniamo ancora, coerentemente con quelli posti in precedenza, l’esempio della pallavolo:
uno dei fondamentali più difficili è la ricezione, perché al giorno d’oggi le battute sono sempre più forti. Per capire quanto basta pensare al fatto che il tempo che intercorre fra la battuta e la ricezione è poco oltre al mezzo secondo.
Ovviamente nei bambini le battute non sono mai così forti, ma lo sono senza dubbio di più di una palla lanciata contro un muro e non importa dunque quanto io sia perfetto nel ricevere la palla quando rimbalza su di una parete, perché si tratta di una situazione che non ha alcun trasferimento nel gioco. Gli stimoli che ricevo non sono assolutamente inerenti con quelli della partita.
In allenamento tutto deve essere svolto in modo che sia il più possibile inerente a quelle che sono le situazioni di gioco.
Quasi tutti i nostri sport sono infatti visual motor sport, dove non è solo il come mi muovo che conta, ma come lo faccio a seconda di ciò che io ho visto. In precedenza abbiamo fatto l’esempio dei giocatori d’elite e della loro risposta quando gli chiedevo come avessero imparato un determinato gesto.
Quando capita di chiedere a qualche giocatore d’elite di descrivere un determinato momento della partita in cui lui o la squadra hanno eseguito qualcosa di sorprendente, quello che si nota è che loro ti raccontano l’azione come se fosse andata ad una velocità molto più lenta rispetto a quella della realtà. I grandi giocatori posseggono infatti questa grande capacità di avere maggior tempo rispetto agli altri per leggere ciò che accade all’interno del gioco.
Che rilevanza hanno le capacità coordinative all’interno del contesto dell’apprendimento motorio?
Ciò che è emerso dagli studi sull’apprendimento motorio è che quelle che noi chiamiamo capacità coordinative di base per riassumere concetti come la coordinazione o la velocità, siano in realtà non aderenti alla realtà del gioco.
McGown in tal senso portava sempre l’esempio di Michael Jordan. “Voi avete visto giocare MJ?” diceva sempre. “Se lo avete fatto, sarete tutti d’accordo con me nell’affermare che si tratta di un giocatore coordinato. E’ veloce, è rapido, è esplosivo. Ha tutto. Perchè però, quando nel culmine della sua carriera ha abbandonato il basket per il baseball, non ha avuto lo stesso successo? Perchè in quello sport non riusciva a colpire una palla? Se uno è coordinato, non dovrebbe avere problemi a cambiare attività eppure Jordan li ha avuti.
Questo è possibile perché la sua coordinazione oculo motoria è specifica per lo sport del basket. Cambiando il contesto sportivo cambia la sua capacità di valutazione delle traiettorie e dei movimenti e le sue abilità motorie, perché colpire una pallina con una mazza è completamente diverso dall’afferrare una palla e schiacciare a canestro”.
Julio Velasco parla di coordinazione generale e specifica durante uno dei suoi seminari.
Spesso accade che durante una partita o un allenamento l’allenatore e il giocatore abbiano due visioni differenti rispetto ad una situazione accaduta e sentiamo il mister dire al ragazzo “ma come hai fatto a non vederlo?”. A cosa è dovuta questa differenza?
In questa frase ci sono due valutazioni da dover fare.
La prima è relativa alla differenza di punti di vista: l’allenatore, che magari ha una conoscenza più profonda del gioco avendo visto più partite, guarda con più attenzione l’avversario e la sua gestualità, rispetto invece al bambino che ha l’attenzione rivolta al pallone. Ecco che quindi l’allenatore è in grado di gestire un maggior numero di informazioni rispetto al giocatore che, avendone di meno, coordina troppo tardi il suo movimento rispetto a quello che vede.
Il secondo motivo è invece legato alla differenza di significato che diamo all’associazione di un determinato gesto rispetto a ciò che accadrà. Pensiamo ad un giocatore di calcio e al modo in cui sta caricando il tiro o il passaggio: quando lo fa assume una postura che ci fa capire il grado di forza che verrà impressa alla palla. L’allenatore lo nota e associa ad essa una azione futura, ma può anche essere che il bambino non abbia ancora processato le informazioni per cui ad una determinata gestualità dell’avversario si associa una azione specifica, perché non ha ancora avuto abbastanza esperienza in tal senso.
Esiste un bel libro, Outliers (Fuoriclasse, storia naturale del successo in Italia), in cui l’autore ha studiato diversi tipi di talento di qualsiasi ambito, sportivo, intellettuale, artistico, e quello che è emerso è l’unica cosa in comune a questi tipi di talenti sono le ore di attività dedicata alla pratica deliberata, quella cioè su cui l’atleta vuole lavorare in maniera libera e consapevole. Questo è il motivo per cui esistono bambini cosidetti precoci. Quelli sono bambini che hanno dedicato ad una determinata capacità più tempo per svilupparla.
Cosa si intende per lavoro consapevole?
Innanzitutto, come prima cosa la scelta di sviluppare un’abilità dipende dallo studente, non deve essere imposta.
Secondariamente è il bambino stesso che capisce e definisce quale è l’abilità sulla quale intende lavorare.
In ultimo poi, il bambino si deve sentire all’interno del processo di apprendimento, deve essere il protagonista, prendere il feedback delle loro azioni ed elaborarlo.
Questo fa pensare a quanto potrebbe risultare più efficace un allenamento se gli obbiettivi fossero, ovviamente in maniera graduale e guidata da parte dell’allenatore, scelta dai giocatori stessi…
Assolutamente si. Soprattutto a livello di settore giovanile potrebbe essere utile far scegliere un esercizio da svolgere all’interno della seduta o, in alcuni casi, anche l’intero allenamento.
Questo per un duplice motivo. Il primo è coinvolgere i ragazzi. Il secondo è farli ragionare sull’esercizio che stanno svolgendo. Molto spesso infatti accade che quando il giocatore arriva al campo e deve svolgere qualcosa preparato da altri, a meno che non abbia una grandissima capacità di attenzione, non si ponga il problema del perché sia stato scelto quel mezzo e non un altro, ma “attraversa” l’esercizio sperando di arrivare presto a fare ciò che lo diverte.
In questi casi, quello che va fatto, è trovare le modifiche all’esercitazione affinché diventi allenante ed è fondamentale che questo tipo di processo mentale non sia solo ed esclusivo dell’allenatore ma anche del giocatore stesso, perché poi in gara, quando vede che il piano partita non funziona, deve essere il primo a trovare una soluzione. Ma perché riesca a farlo è necessario che sia allenato a questo pensiero.
Dunque divertimento e apprendimento viaggiano di pari passo. Ma quando possiamo affermare di avere divertimento all’interno dell’allenamento?
La parola divertirsi proviene dal latino, ed è composta da due termini, “de” e “vertere”, il cui significato è traducibile con “andare altrove”.
Tutti associano il divertimento al fare qualcosa che ci rende felici, ma in realtà, etimologicamente, il divertimento è cambiare sempre strada. Se riuscissimo a far passare questo tipo di concetto nei ragazzi, la voglia di evolversi e cambiarsi, avremmo ottenuto un risultato importantissimo.
Coinvolgere i giocatori nel cambiamento può avere ripercussioni positive per l’apprendimento?
Con i ragazzini è importante affinché sviluppino un metodo di ragionamento, con gli adulti lo è per coinvolgerli e perché spesso si pensa che il giocatore non sappia, o sappia meno dell’allenatore, quando invece può accadere che sia l’esatto contrario.
Prendendo in esame il caso dello sport a livello giovanile, è fondamentale guidare i ragazzi alla comprensione di come si struttura un allenamento, spiegando loro le fasi che lo compongono. “Perchè all’inizio della seduta facciamo questo esercizio?”, “Perchè nella parte centrale quest’altro?”, “Che benefici ricerchiamo attraverso questa esercitazione?” In questo modo, piano piano, aumenterà la loro consapevolezza rispetto a ciò che fanno, e riusciranno anche ad essere in grado di avanzare proposte di lavori da svolgere, fino, al termine del percorso, riuscire a capire il metodo.
In generale coinvolgere i ragazzi nelle decisioni porta a risultati molto più alti di quelli che si otterrebbero senza il loro coinvolgimento, perché quello che fa la differenza in questi casi è la consapevolezza di ciò che si sta facendo e questa consapevolezza aiuta sicuramente nell’apprendimento.
Come può un allenatore aiutare il proprio giocatore a migliorare la tecnica di base?
Esistono tre concetti fondamentali per questo.
Il primo, avere delle parole chiave, dove per parole chiave si intende avere una comunicazione efficace e conosciuta fra allenatore e giocatore con lo scopo di veicolare concetti tecnici. Nella pallavolo, per esempio, esiste un modo per indicare come dovrebbe essere, tecnicamente parlando, la presa del bagher, ed è “mani e polsi uniti.” Una volta stabilite e conosciute queste parole chiave, nel momento in cui l’allenatore durante il gioco dice ad uno dei suoi allievi “mani e polsi uniti”, lui saprà immediatamente la gestualità tecnica da dover correggere, senza bisogno di troppe spiegazioni.
Il secondo concetto, strettamente legato al primo, è quello della dimostrazione, e cioè il modo in cui si vuole fare apprendere l’informazione relativa al concetto di base. Se io allenatore voglio far passare il concetto “mani e polsi uniti” devo prima dimostrare che cosa significa, soprattutto con i bambini. Ovviamente nella dimostrazione deve essere specificata spesso la parola chiave a cui quel gesto è connesso.
Terzo e ultimo punto, e sembra paradossale ma non lo è, bisogna limitare le informazioni da dare al giocatore. In alcuni sport viene spesso utilizzato una soluzione che è quella di far correggere gli errori fra giocatori stessi: in caso di esercizio a coppie, in cui un allievo deve trasmettere palla ad un compagno che deve eseguire un gesto tecnico, sarà chi ha passato la palla ad essere il mister del compagno. In questa maniera si sviluppa sia un senso di responsabilità nei confronti del proprio compagno che crea, per la teoria dei neuroni a specchio, un tipo di apprendimento.
Come si deve comportare un allenatore quando si trova di fronte ad un giocatore che ha una gestualità tecnica “meccanicamente” errata ma comunque efficace?
Da questo punto di vista è bene sottolineare come non esista una risposta che sia in grado di mettere tutti d’accordo.
Sicuramente avere una preparazione dei principi metodologici il più possibile scientifica aiuta molto ad accelerare alcuni processi, ma fare l’allenatore significa anche avere a che fare con un qualcosa, oltre che scientifico, di artistico, e questo è il motivo per cui troviamo, in tutti gli sport, allenatori vincenti con personalità e metodi anche totalmente differenti.
Uno dei principi più importanti della metodologia di allenamento, che riguarda anche il discorso del transfert, è che "il gioco insegna il gioco"
La cosa più importante, il motivo per cui noi impariamo le cose, è il Gioco: facendo un esempio banale, per imparare come si calcia nella maniera migliore non ci si è seduti a tavolino per discuterne, ma si è guardato molte partite e valutato quale fosse la maniera migliore per eseguire il gesto tecnico sulla base del comportamento dei calciatori stessi. Proprio per questo motivo, un certo grado di variabilità tecnica, soprattutto quando i ragazzi sono più grandi, deve essere consentito.
Quando si parla di tecnica individuale sono due le correnti di pensiero degli allenatori: chi pensa che si debba costruire un giocatore passando dai fondamentali al gioco e chi invece crede nel processo contrario, e che quindi sia sempre il gioco a dire ad un allenatore di che cosa un giocatore ha bisogno. Il rischio che si corre nel primo caso è quello di andare a correggere gestualità tecnicamente non perfette ma che poi nella pratica sono funzionali e produttive.
Spesso ci si dimentica che il principio alla base dell'insegnamento della tecnica non è quello di essere perfetti, ma di giocare in maniera migliore.
Inoltre, evidenziando le lacune del giocatore direttamente dal Gioco, è più facile che il giocatore stesso sia più consapevole ed invogliato a seguire l’allenatore nel processo di miglioramento.
E’ possibile quantificare da un punto di vista temporale l’apprendimento motorio?
Quando si parla di apprendimento quello che spesso ci si dimentica è che non stiamo parlando di un processo illustrabile graficamente con una linea retta, ma è molto più simile ad un processo fatto “a scalini”: inizio a lavorare, ripeto le stesse cose più volte e rimango sempre allo stesso livello, fino a quando non arrivo ad un certo punto e questo livello aumenta.
Chiaramente poi, il tempo di apprendimento è un qualcosa di molto soggettivo.
Il compito dell’allenatore è fare in modo che la parte piatta dello scalino duri sempre meno man mano che si sale e per far si che ciò avvenga ho bisogno di fare il maggior numero di ripetizioni nella miglior maniera possibile. Qui però si entra nell’aspetto più difficile della metodologia, che è il combinare la quantità con la qualità: è più importante fare poche cose ma fatte bene o fare di più per rendere più rapido il mio apprendimento trascurando la qualità?
Per rispondere a questo quesito abbiamo però degli strumenti che ci vengono in aiuto dalle neuroscienze. Il nostro cervello ha infatti dei cicli di attenzione molto precisi. In un atleta evoluto arrivano al massimo a 40-50 minuti e non sono mai costanti. Inoltre, un’altra variabile importante da tenere in considerazione, è quella delle informazioni che sono contenute nelle proposte che diamo alla squadra: più sono le informazioni da dover elaborare e minore dovrà essere la durata dell’esercitazione stessa. Il rischio di non rispettare questo principio è che l’atleta, per autodifesa, smetta di pensare, un po’ come accade agli studenti a scuola durante una lezione particolarmente pesante.
Ecco perché anche i cicli attentivi sono altri aspetti da tenere in considerazione quando cerchiamo di quantificare l’apprendimento da un punto di vista temporale.
Per favorire l’apprendimento di un determinato gesto tecnico nel minor tempo possibile, quale deve essere la sua ripetizione all’interno del micro ciclo settimanale di allenamenti?
Per atleti di massimo livello l’esercizio più frequente deve essere sempre quello globale.
Questo perché il motivo per cui ci si allena è migliorare la performance nel gioco e dunque bisogna necessariamente fare esercizi con il grado di transfert più alto rispetto alla partita.
Per quanto riguarda una squadra giovanile bisogna differenziare. Nel caso di ragazzi dai 14-18 anni ci si trova davanti ad una fascia d’età in cui l’obbiettivo è quello di costruire il giocatore, pertanto il volume di lavoro non può essere mai variabile. Non essendo variabile può capitare dunque che si possa arrivare a certe partite, o in certi periodi, non al massimo della forma, ma questo è un qualcosa di sacrificabile dal momento che il risultato finale di costruzione è molto più importante di quello della singola partita. Inoltre, sempre per questa fascia d’età, è importante creare programmazioni diverse per gruppi di lavoro con capacità differenti. In quasi tutte le squadre ci sono abilità differenti tra i ragazzi, sia da un punto tecnico che fisico e creare specifici protocolli di lavori per determinati gruppi, o determinati ruoli ricoperti in campo, è importante.
Con i ragazzini più piccoli ancora, il focus dovrebbe essere quello di creare un adattamento di volume fra gioco e aspetto tecnico. Si può avere un modus operandi in cui il volume di gioco e il volume tecnico vanno avanti insieme di pari passo oppure alternarli. In una ipotetica settimana con 4 allenamenti, per esempio, si potrebbero utilizzare 2 giorni in cui si svolgano solo esercizi di gioco e due giorni in cui il gioco e la tecnica vengono sviluppati nella singola seduta.
La cosa difficile, in questi casi, è che durante la settimana sia presente sempre, in ogni proposta, il tema che intende allenare, sia nelle esercitazioni più legate al gioco, sia in quelle con valenza prettamente tecnica.