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Parallelismi

Fra i tecnici di pallavolo del panorama italiano, coach Massimo Barbolini è senza ombra di dubbio uno dei più quotati e vincenti in circolazione. Insignito dell’onorificenza di Palma d’Oro al al Merito Tecnico nel 2019, la lista dei trofei conquistati si avvicina ai 30 titoli conquistati con squadre di club, fra titoli nazionali, Champions League, Mondiali per Club ed altri titoli continentali, cui vanno aggiunte 5 medaglie d’oro e 4 di bronzo conquistate alla guida della nazionale femminile italiana. 

Si è messo a disposizione per una giornata intera, dal mattino al pomeriggio, in cui ha virtualmente aperto le porte del suo ufficio e ha parlato del ruolo dell’allenatore, di relazioni, di leadership, metodologia e tanto altro. 

Quello di seguito è il riassunto della piacevole, e forse inconsapevole, lezione privata ricevuta dall’attuale tecnico della Pallavolo Scandicci Savino del Bene.

Quanto è stato importante per la tua carriera iniziare al fianco di un tecnico come Velasco e cosa ti sei portato dietro del suo modo di allenare?

Julio è stato per me fondamentale, allora avevo 20 anni e quando arrivò a Modena chiese un allenatore proveniente dal settore giovanile come suo vice. Porto ancora oggi con me tantissimi suoi insegnamenti che, come tutte le cose utili, non hanno tempo e rimangono attuali anche a distanza di tempo. La prima cosa è senza ombra di dubbio la cultura del lavoro e l’importanza del metodo, inteso come il trovare il modo di risolvere le situazioni che ci creano problemi senza soffermarsi troppo sul perché non vengono come vorremmo. Chiaramente bisogna individuare la natura della problematica, una volta fatto però questa non deve diventare una scusa per non affrontarla. Il famoso discorso sulla cultura degli alibi tenuto da Julio è diventato iconico ma grazie a lui ho capito quanto sia importante togliere dalla testa degli atleti questa idea e la cultura del lavoro è il mezzo attraverso il quale ho ottenuto i maggiori successi in tal senso. Era maniacale in moltissimi aspetti, soprattutto quello legato alla tecnica individuale dei singoli giocatori.

Il lavoro analitico quindi ricopriva una parte importante dell’allenamento? Nel calcio soprattutto ormai gli allenatori sono separati in due fazioni distinte, chi crede nell’importanza del lavoro analitico e chi invece sostiene che la tecnica debba essere allenata in situazione.

Questo è un dibattito che si fa molto anche nella pallavolo. Ci sono scuole, come quella americana, che puntano molto nel lavoro 6 contro 6, altre che puntano più sul lavoro analitico. Io personalmente tendo a mediare le due cose, anche perché noto nelle mie giocatrici, pur essendo giocatrici di livello mondiale, la necessità di fare situazioni di lavoro analitiche. Ovviamente, più sali di livello e minore sarà il tempo che dovrai dedicarci. Con qualche regola di obbligazione o limitazione è possibile introdurre un lavoro analitico anche in una situazione di 6 contro 6, obbligando lo schiacciatore a mirare le mani del muro, per esempio, ma a me personalmente piace lavorarci e dedicarmici in maniera specifica, togliendo dalle situazioni del lavoro globale. E’ ovvio che poi diventa molto importante la capacità di sapere dosare il tempo dedicato al lavoro analitico e il tempo dedicato al gioco, che rimane importantissimo soprattutto fra i più giovani, cercando di dare ai ragazzi meno soluzioni possibili riguardo alle soluzioni dei problemi da affrontare. Questo però vale anche per i livelli più alti, non solo in età formativa. Ogni tanto vedo alcune cose che mi lasciano perplesso e mi fanno pensare…

Per esempio?

A me piace molto il calcio, lo seguo e lo guardo con passione. Ogni tanto però vedo che ci sono allenatori che non fanno giocare alcuni loro giocatori perché non sono ancora entrati negli schemi della squadra. Magari dopo 5 mesi di allenamento. E in 5 mesi si danno 3-4 esami di ingegneria nucleare all’università… E’ vero che gli sport di squadra sono sistemi complessi, ma forse in alcune situazioni si sta un po’ esagerando.

In generale penso che il principio regolatore di ogni allenamento sia la funzionalità rispetto a ciò che si fa.

Quando un allenamento o una programmazione, possono ritenersi funzionali?

Selezionare le priorità è la cosa fondamentale.

Una volta individuato il “cosa”, sono altrettanto importanti il “quando” e il “come”.

Per avere una programmazione funzionale non si può prescindere da questi tre aspetti e il feedback sulla bontà del metodo di formazione intrapreso arriva sempre dai ragazzi: così come se a scuola durante un test, 20 ragazzi su 25 risultano insufficienti, anche nello sport se la maggior parte dei ragazzi non riesce a risolvere un’esercitazione proposta, significa che abbiamo fatto qualche errore noi istruttori nel percorso di insegnamento e dobbiamo avere l’umiltà di fare un passo indietro e correggere ciò che abbiamo sbagliato.

Nel tuo personale palmares sono quasi trenta i titoli di squadra conquistati, fra squadre di club e nazionali. Quali caratteristiche sono imprescindibili per un allenatore di successo?

Una qualità importante per ogni coach di successo credo sia quella di apprezzare dove si è arrivati avendo la consapevolezza che non ci si è trovati a quel punto per caso.

Penso che sia questa consapevolezza che poi fa si che uno mantenga l’asticella sempre alta, facendo si che si possa diventare un vincente. Vincente è un participio presente e spesso come tale vengono etichettati giocatori o allenatori che vivono di rendita per anni con una sola vittoria, quando invece bisognerebbe ricordarsi di certe vittorie per mantenere la consapevolezza che arrivare a determinati livelli è molto difficile ma quello che è davvero complicato è rimanerci. Quando si raggiunge questo status mentale si riesce anche ad essere maggiormente focalizzati sul nostro ruolo, perdendo meno tempo in cose futili e concentrandosi di più su ciò che realmente fa la differenza: preparare un allenamento, riguardare un video, fermarsi a parlare con un giocatore o con un altro allenatore, anche di altri sport, ovviamente.

Coach Barbolini in un frame della video intervista
Velasco diceva che per un allenatore, più la quantità di conoscenze tecnico tattiche, è fondamentale trovare il modo di saperle comunicare ai propri giocatori. Ti ritrovi in questo?

Sono d’accordissimo. Quando si tratta di questo tema faccio spesso il paragone con gli insegnanti: non basta sapere perfettamente l’inglese per poter essere un professore. Bisogna saperlo insegnare.

La stessa cosa vale per gli allenatori, la quantità di conoscenze è irrilevante se non si sa trasferirla.

Si tratta di una capacità innata o si può insegnare?

Non so dirti se è una cosa che si insegna, ma sicuramente si impara e lo si fa facendo degli errori.

Con gli anni per esempio personalmente ho cambiato moltissimo la quantità di informazioni che trasmettevo ai giocatori. Ad alto livello, in ogni sport, si ricevono tantissime informazioni statistiche, di qualunque tipo, e parte del mio lavoro è anche capire cosa è davvero rilevante, per chi, e in che momento e, sulla base di questo, trasmettere poche ma precise informazioni.

Sempre Velasco sostiene che ci sono due concetti fondamentali nella gestione di un gruppo: il sistema e il metodo. Quale è il tuo metodo a livello di gestione del gruppo, programmazione di allenamento e del modello di gioco e gestione della partita?

Per quanto riguarda il sistema, inteso come sistema di gioco, è importante che nella squadra sia chiaro ciò che ognuno deve fare in ogni momento. Dipende dalle idee dell’allenatore che devono però tenere necessariamente conto delle caratteristiche dei suoi giocatori. In questo periodo di lockdown (intervista realizzata il 22 giugno 2020, ndr) abbiamo realizzato molte video call con altri allenatori, trattando ogni volta un argomento differente, e per quanto riguarda il tema della gestione del gruppo abbiamo voluto rendere partecipi anche alcuni giocatori. Posso garantirti che tutti quelli che hanno partecipato, donne, maschi, fortissimi, meno forti, hanno riconosciuto come caratteristica fondamentale quella della chiarezza.

L'allenatore deve dunque mantenere sempre l'onestà nel rapporto con i propri giocatori, essere coerente senza avere eccessiva paura di dispiacere un suo giocatore.

Non sono neanche un amante delle regole: nel mio gruppo le regole sono quelle date dal buon senso. L’unico obbligo che do ai miei giocatori è quello di essere in palestra almeno 20 minuti prima dell’inizio dell’allenamento, e non per un mio vezzo personale ma perché ritengo che approcciare a livello mentale prima che la seduta inizi sia una forma di rispetto verso il proprio lavoro, che è il mestiere più bello del mondo. Bisogna dare fiducia ai propri giocatori, a fissare regole limitanti si è sempre in tempo.

Le regole possono aiutare a creare una cultura di squadra vincente oppure no?

Secondo me ciò che è fondamentale è avere un obiettivo da raggiungere. Nella mentalità italiana poi c’è da sempre la cultura dell’impresa. Tanti risultati alle Olimpiadi piuttosto che nei Campionati del Mondo sono arrivati da non favoriti, abbiamo il gusto del compiere qualcosa di eccezionale e questo noi questo dobbiamo cercare di riprodurlo in allenamento. Sotto la mia guida vincemmo gli Europei del 2007 e non eravamo assolutamente i favoriti. Quando due anni dopo ci presentammo al campionato continentale da campioni in carica quello che cercai di trasmettere alle ragazze era proprio questo, il gusto del compiere l’impresa di vincere nuovamente, e questa volta da favoriti, cosa forse ancora più difficile. Lo stesso discorso, secondo me, lo possiamo fare anche a livello individuale, creando una competizione sana, sia interna, fra giocatori della stessa squadra, che esterna, con avversari di altre squadre.

Montali, nel suo libro “Scoiattoli e tacchini” spiega come nei suoi anni da allenatore, era solito individuare un “nemico sportivo” e appendere il poster di quella squadra nelle mura del palazzetto in cui si allenava, dicendo ai suoi giocatori che nel momento in cui loro si stavano allenando c’era chi da un’altra parte stava provando a fare lo stesso e in maniera migliore rispetto a loro…

Certamente ci sono moltissimi modi per arrivare allo stesso obbiettivo, e questo è uno di questi.

E’ possibile ottenere buoni risultati senza avere un buon processo? O avere un buon processo e non ottenerli?

Nel primo caso si, può capitare che per una serie di circostanze si possano ottenere risultati pur senza un processo alle spalle. Allo stesso modo lavorare bene non è mai garanzia di vittoria. Ad alti livelli tutti, o quasi tutti, lavorano bene, ma alla fine solo uno vince. Quello che fa la differenza sono sempre i giocatori. Di squadri vincenti con giocatori forti se ne vedono tutti gli anni, in tutti le competizioni. Non ho mai visto squadre vincere con giocatori scarsi.

Parafrasando sempre Velasco, in una sua intervista ha dichiarato che se si vuole ottenere il massimo da un gruppo l’allenatore, in quanto leader, deve essere preparato anche ad un certo conflitto con i proprio giocatori. E’ d’accordo?

A me personalmente piace molto il confronto con le mie atlete, mi piace spiegare e condividere i miei programmi, soprattutto per due motivi. Il primo è una questione di correttezza ed educazione, il secondo è per un motivo molto più pratico, perché quando si sa il motivo per la quale si fa qualcosa si è più invogliati a svolgerla al meglio e a trovare soluzioni ai problemi senza che ti venga detto dall’esterno cosa fare. E’ chiaro e abbastanza ovvio però che non sempre tutti saranno d’accordo con i piani dell’allenatore, e che dunque si possano avere opinioni discordanti, ma alla fine è sempre l’allenatore che ha il dovere di decidere e prendere una scelta.

Quanto conta il curriculum dell’allenatore all’interno delle dinamiche di squadra?

Il curriculum dell’allenatore è sicuramente qualcosa che il giocatore va a vedere, con più o meno rispetto o curiosità, e che alla fine ha il suo peso, per cui certamente un passato vincente aiuta l’allenatore.  A me piace molto il calcio e lo seguo con piacere e ti faccio un esempio relativo all’anno passato quando per la Juventus si parlava, come soluzioni per la panchina di Guardiola o, come poi è stato, di Sarri. Beh, è normale che se fosse arrivato Guardiola sarebbe stato accolto dai giocatori in maniera differente da Sarri, perchè il suo curriculum e il suo passato è sicuramente più “affascinante”. Quindi si, ti posso dire che aiuta, per lo meno in partenza perché poi le aspettative possono anche trasformarsi in delusioni se non vengono mantenute. Poi per creare e mantenere la leadership all’interno di un gruppo un allenatore ogni tanto deve mettere da parte passato, curriculum e vittorie personali e condividere, essere chiaro e sincero con i suoi ragazzi o le sue ragazze talvolta facendosi anche da parte e lasciando che certe situazioni vengano risolte dalla squadra. Ricordo per esempio un episodio avvenuto durante la Coppa del Mondo del 2011 in Giappone. Ci presentammo a quella competizione con 2 vittorie consecutive e un quarto posto ai precedenti Europei e con l’ambizione soprattutto di arrivare fra i primi quarti per garantirci una qualificazione alle prossime Olimpiadi. Nel penultimo allenamento prima dell’inizio della manifestazione ci fu una accesa discussione fra due ragazzi, ma lasciammo che furono loro stessi a risolvere la situazione, senza intervenire. Sicuramente non fu il motivo per cui successo, ma il fatto che fosse accaduto ci aiutò a vincere quei Mondiali e ci qualificarci alle Olimpiadi.

Come si gestiscono invece i cosiddetti “gregari” del gruppo?  Spesso la gestione dei leader è molto più semplice di quelli che invece non attengono le stesse attenzione, soprattutto mediatiche, ma che sono altrettanto importanti per l’equilibrio di squadra.

Non è una cosa sicuramente facile, ma è importante far riconoscere l’importanza di questi giocatori. Lo si fa parlando con loro il doppio di quanto non si farebbe con il leader, o cercando di evidenziare in allenamento l’importanza di loro azioni svolte in maniera corretta. E questo non per dargli il contentino, ma per fargli capire l’importanza che ha il suo ruolo all’interno della squadra. Anche perché poi succedono episodi come quelli che accaddero ai Chicago Bulls dell’era Jordan in cui due partite fondamentali furono risolte da Paxson e Kerr, due giocatori non proprio di primo piano in quella squadra. C’è da dire poi che spesso poi sono i giocatori stessi che si rendono conto che se vincono, spesso, è per merito di colui che invece la scena gliela ruba. L’importante è non esasperare questa situazione nello spogliatoio, e questo è compito dell’allenatore.

Hai accennato al basket. Ultimamente nel calcio, soprattutto nelle competizioni estive, stiamo assistendo con sempre più frequenza ai cosiddetti “cooling break”. Come è la gestione dei tuoi time out?

Dipende molto dai momenti. Una volta addirittura si potevano chiamare sei time out per set e non ti nascondo che a volte mi sono trovato senza saper cosa dire. In quei casi piuttosto che dire le solite banalità preferivo non dire niente e lasciare il tempo ai giocatori per riprendersi e tornare in campo. In quei casi spesso lascio che siano i giocatori stessi a parlare fra di loro, a trovare internamente la soluzione al problema. Rispetto al calcio sicuramente noi abbiamo più possibilità di rendere i time out “decisivi”, intervenendo nel ritmo della partita nel momento più opportuno, e non sempre solo quando le cose vanno male.

Come descriveresti la tua metodologia di allenamento?

Durante le settimane di preparazione, solitamente sette o otto, programmo il mio lavoro in funzione del lavoro fisico che svolgiamo con il preparatore atletico. Lascio che sia lui a stabilire il lavoro da effettuare e cerco di inserire la mia parte tecnico tattica. All’interno della settimana, invece, cerco sempre quando possibile di lasciare un giorno di riposo anche se non sempre è possibile. La settimana tipo prevede sempre, fra campionato e coppe, almeno due partite a settimana, talvolta anche tre, e quindi il tempo per allenarsi non è molto. Nella settimana tipo, con due partite, cerco sempre di non far mancare due allenamenti “importanti”, dove per importanti intendo con contenuti cognitivi elevati, partite 6 contro 6 ad alta intensità per esempio, e uno dedicato allo sviluppo della tecnica individuale. Quando allenavo in Turchia, per esigenze di vario genere, allenavo anche il giorno prima della partita, in tarda mattinata, ed era un allenamento vero, tirato, con esercizi a punteggio. Non una tipica rifinitura. Quest’anno ho mantenuto questa abitudine all’interno della mia metodologia, con un buon riscontro da parte del gruppo, nonostante il tema degli esercizi a punteggio, soprattutto prima di una partita, sia piuttosto delicato e dibattuto tra noi allenatori.

Come mai questo?

Dal mio punto di vista l’esercizio a punteggio è sempre utile, non si tratta di una partita “normale” con punteggio, ma ogni palla, ogni giocata, ogni punto, ha un peso maggiore rispetto ad un altro a seconda delle scelte dell’allenatore e delle esigenze della squadra. E’ importante per me dare sempre uno stimolo, anche breve, al gruppo. Poi ovviamente sta sempre all’allenatore valutare cosa la squadra ha bisogno e soprattutto quando. Nel mio caso, quando devo preparare una partita con un solo allenamento a disposizione, preferisco lavorare con esercizi non a punteggio e concentrarmi su situazioni specifiche. Ovviamente questo per il giocatore è meno divertente, ma necessario. Velasco diceva sempre che “ogni tanto ci si doveva allenare anche a diventare matti” nel senso che fino a che una cosa non riusciva bene si doveva stare in palestra a provarla. Ogni tanto il divertimento deve essere anche avere la soddisfazione di fare le cose bene.

Riguardo a questo concetto Ettore Messina, attualmente allenatore di basket dell’Olimpia Milano, durante un suo seminario disse parte del ruolo dell’allenatore è anche quello di diventare, a volte, pesante ai suoi giocatori, pur di stimolare in loro il concetto di auto esigenza, perché la competizione ad alto livello richiede che certe cose vengano eseguite in una determinata maniera.

Assolutamente, non è possibile giocare bene se in settimana non hai svolto un lavoro adeguato. Quest’anno vorrei provare ad utilizzare un mezzo che un mio collega ha utilizzato quest’anno con la sua squadra e cioè, utilizzare una app attraverso la quale i giocatori, al termine di ogni seduta danno una valutazione al proprio allenamento. Quello che mi fa arrabbiare, e mi è capitato nella mia carriera, è quando un giocatore approccia male all’allenamento e poi ti chiede alla fine di fermarsi venti minuti per allenarsi ancora e migliorare un determinato gesto tecnico. I giocatori devono capire che si può anche sbagliare, ma che quando ci si allena bisogna farsi trovare pronti a livello mentale, perché in partita non c’è possibilità di rimediare poi alla fine.