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“L’unico futuro possibile del calcio è il passato.” Intervista a Rubèn Rossi

Fra i massimi esponenti del calcio di formazione a livello mondiale, Ruben Rossi ricopre senza alcun dubbio uno dei posti in prima fila. Esperto, o come direbbe lui studioso, del calcio giovanile, ed autore di diverse opere sulla formazione dei giovani calciatori, è stato recentemente chiamato da Paco Seirul-lo come docente per gli allenatori della cantera del Barcelona, ruolo che peraltro già ricopre nella Escuela de Entrenadores Cesar Luis Menotti, in cui, oltre ad essere il titolare di una delle cattedre principali, ricopre anche il ruolo di vice dell’iconico tecnico argentino. Le sue prime parole delle chiacchierata che segue sono, tuttavia, quasi sorprendenti:

“Ho paura che con me oggi perderai il tuo tempo” questo il suo esordio. “Io non ho nulla di nuovo da insegnare.  Sono solo un innamorato del calcio che ha dedicato la sua vita a questo sport, prima nel ruolo di calciatore e poi, una volta terminata la carriera, come studioso dell’apprendimento del bambino. Mi sono chiesto ‘come è possibile che io, bambino di un barrio di Santa Fè, che non ho mai giocato in una società a livello giovanile e non ho mai avuto nessuno che mi trattasse durante la fase sensibile, né la parte psicologica nè quella tattica, sia diventato vice campione giovanile in Uruguay, campione del mondo in Giappone, campione pre olimpico in Colombia e ho fatto parte della selecion che ha preso parte ai Giochi Olimpici guidata da Diego Armando Maradona?’ E’ da qui che sono partito, da questo pensiero, e da quel momento ho iniziato a costruire tutto il mio personale percorso di studio sull’apprendimento dei giovani.”

Quali sono le basi su cui poggia il suo pensiero circa l’apprendimento del giovane calciatore?

Io divido la formazione del calciatore in 3 tappe: la tappa del calcio di formazione (de fundamentacion), che individuo all’incirca fino ai 12-13 anni in cui l’obiettivo è quello di imparare a giocare attraverso l’unico ed esclusivo maestro, che è il gioco; la seconda, dai 14 ai 17-18 è la tappa della conceptualizacion, fase in cui l’istruttore riveste una importanza fondamentale. La terza ed ultima tappa è quella della specializzazione, dove l’allenatore, beneficiando del percorso formativo pregresso, può trasmettere al giocatore la sua idea tattica e strategica.

Luis Cesar Menotti, il mio padre calcistico, un giorno mi disse “nel calcio non hai verità assolute. Però hai bugie evidenti e il nostro dovere di formatori è denunciarle.” Una di queste è una credenza radicata nella metodologia del mondo giovanile, quella secondo cui nel calcio formativo si debba apprendere dal semplice al complesso, quando il calcio, però, è esattamente l’opposto.

Il bambino apprende nella globalità e nella complessità del gioco.

Invertendo questa piramide di formazione, il risultato che otterremo sarà quello di non produrre più i giocatori di talento che abbiamo sempre prodotto. Guarda le rose degli otto club più forti d’Europa. L’unico giocatore argentino di un certo livello, con meno di 25 anni, è Lautaro Martinez. Stiamo iniziando a non produrre più giocatori come Di Maria, Higuain, Aguero e lo stiamo facendo per l’influenza nefasta che abbiamo noi adulti nel calcio giovanile.

Se il gioco ha qualcosa per cui si distingue, questa è la spontaneità, la creatività e l'immaginazione. Quando l'adulto vuole pianificare questi tre fattori non fa altro che pregiudicare l'apprendimento del bambino.

Ruben Rossi in un frame della video intervista
Sembra, dunque, che in Sudamerica ci si stia “europizzando”…

Angel Cappa (altro luminare del calcio giovanile e, anche lui, docente della scuola allenatori di Menotti, ndr)  un giorno mi disse una frase tanto semplice quanto vera: “una volta non c’erano molti maestri nel fùtbol argentino, eppure apparivano molti più calciatori talentuosi.” Questo deve farci pensare all’armamentario di fattori che possono influire su un bambino, e se noi istruttori priviamo i giovani calciatori della loro libertà, l’unica cosa che otterremo sarà creare giocare prevedibili, annoiati ed ordinari. Detto questo attenzione, in tutte le squadre del mondo di ogni tempo ci sono stati calciatori ordinari ed altri straordinari. Io, che facevo parte della prima categoria, ho giocato con Maradona, per esempio. Adesso però l’equilibrio è troppo sbilanciato.

In Argentina siamo diventanti, senza offesa, “europei frustrati”. Guardiamo troppo all’Europa, copiamo metodologie, triangolazioni, concetti, ma la verità è che molti fra i giocatori migliori sono arrivati dal Sud America. Se l’attuale sistema giovanile argentino non modifica la sua struttura e non si rende conto che il bambino, prima di poter competere, deve imparare a giocare, il futuro sarà complicato. Si produrranno sempre più giocatori “europei”, e a quel punto i club del Vecchio Continente non verranno più a cercare i nostri giocatori, perché simili ai nostri li avranno già in casa. Nel calcio argentino l’atletico e il collettivo iniziavano tardi, verso i 13-14 anni. Prima di questa età si sviluppava una fortissima relazione con la palla che faceva si che ogni giovane calciatore sapeva giocare benissimo “a pallone”. Dopo aver sviluppato questa capacità c’era bisogno di qualcuno che insegnasse solo a “giocare a calcio”, che contestualizzasse il tutto.

Come si dovrebbe porre l’allenatore in ambito formativo all’interno di questa espressione di libertà del giovane calciatore?

Così come suddivido il percorso del calcio giovanile in tre tappe, individuo anche tre funzioni dell’allenatore in ciascuna di esse. Nella prima, quella del calcio infantile, l’allenatore ha la funzione di regolatore (ajustadores, ndr). Nel calcio giovanile diventa formatore, mentre assume la funzione di allenatore solo nel calcio professionale.

E quali sono le variabili che deve maneggiare un “regolatore”? Nell’allenamento deve saper interpretare lo spazio, il tempo e le finte; deve immergere il giovane calciatore in un contesto che presupponga compagni e avversari; deve apprendere a scoprire, processare ed eseguire le azioni del gioco. Senza questi fattori non sono presenti non si sta eseguendo un’attività per bambini che giocano a calcio, ma stiamo facendo un’altra cosa.

Nessun calciatore con cui ho parlato, e ti assicuro che non sono pochi, mi ha mai detto di aver imparato a giocare in maniera decontestualizzata. Nessuno di loro mi ha mai detto di aver allenato il passaggio al martedì, la ricezione al mercoledì, il tiro al giovedì per poi mettere tutto insieme al venerdì. Una metodologia di questo tipo, che non ha nulla a che vedere con il calcio, non fa altro che rovinare la base della formazione del calciatore.

Quando dico questo, quello che molti allenatori mi contestano è il fatto che il loro ruolo viene di fatto annullato, ma non è affatto così. Il regolatore deve maneggiare le variabili di cui ti ho parlato prima e il limite della libertà attraverso cui il bambino si può esprimere, perché la libertà senza limiti non esiste.

Che cosa intende per libertà?

C’è uno scrittore argentino, Julio Cortazar, che dice che esistono due tipi di libertà: una, che non serve a nessuno, in cui ognuno è libero di fare ciò che vuole. E un’altra, decisamente più importante, che consiste nel fare ciò che si deve.

Io stabilisco il limite della libertà affinché il calciatore faccia ciò che deve, non ciò che vuole.

L'influenza che un allenatore ha, proponendo allenamenti decontestualizzati, limita la libertà e la capacità di creare. Senza creatività non puoi sorprendere e senza sorpresa nel calcio si muore di noia.

Si può dire quindi che ci sia stato un abuso di “metodologia” in ambito formativo negli ultimi anni secondo lei?

Quello che succede è che oggi si hanno troppo metodologhi.

Una sera, cenando Luis Menotti mi disse “Ruben sai qual è la differenza fra i giornalisti e noi allenatori? Che nessuna di loro ha l’obbligo di dimostrare ciò che dice con prove, né dentro né fuori dal campo.”

Io ascolto moltissime persone che lavorano all’interno dei settori giovanili parlare di neuroscienza, di presa di decisioni, di biomeccanica, di microciclo strutturale, periodizzazione tattica, di neuroni specchio, ma sempre troppo pochi parlano del calcio. Perchè questo difensore difende male? Perchè questo attaccante segna pochi gol? Io non conosco nessuno che abbia risposto a queste domande dicendo “Si, Cristiano Ronaldo non sapeva segnare ma grazie alla neuro scienza è diventato uno dei migliori di sempre.”

Aggiungo un’altra cosa. Io individuo 5 corone indiscutibili nella storia del calcio: Di Stefano, Pelè, Crujff, Maradona e Messi. Tralasciamo quest’ultimo, che è l’unico contemporaneo. Ma quanti altri calciatori si possono definire vicini a questi cinque che ti ho appena nominato? Pochissimi, forse il solo Cristiano Ronaldo. Squadre come il Santos di Pele, l’Olanda del ’74, il Brasile del ’70 non esistono più.

I giocatori, oggi, giocano sempre peggio.

La locandina relativa all'intervento di Ruben Rossi ai tecnici de La Masia del FC Barcelona
Curioso come dei cinque giocatori più forti della storia da lei individuati, 4 siano sudamericani.

Esatto. E questo quindi che vuol dire? Che non dobbiamo guardare all’Europa, perché il modello è qua.

Jorge Valdano una volta disse che la scuola calcio è buona per il giocatore di livello medio, ma che spesso è dannosa per il giocatore geniale.

Ho un’ottima relazione con Jorge e abbiamo discusso molto di questo tema. Il problema è che il tecnico del settore giovanile vive il suo ruolo come quello di allenatore di prima squadra, per cui più vittorie conquista e più viene considerato bravo e questa ricerca del trionfo non permette l’espressione di libertà. Sentendo la pressione del risultato, l’allenatore penserà di dover insegnare tutto ai propri giocatori ma quello che sottovalutiamo è la capacità che i bambini hanno di scoprire le cose. I bambini sono in grado di scoprire le cose da soli. Solo se hanno difficoltà a trovare la strada giusta da soli allora è giusto intervenire.

Purtroppo però è molto più semplice vincere che insegnare.

Una volta partecipai ad un convegno privato con alcuni tra i più grandi tecnici del mondo e assistetti ad una conversazione fra Arrigo Sacchi e Rinus Michel. “Sai qual è la più grande differenza fra voi italiani e noi olandesi?” chiese l’ex tecnico dell’Ajax a Sacchi. “Che per insegnare ad un bambino a nuotare voi lo mettete in una piscina, con l’acqua bassa, e gli spiegate come muovere le braccia e le gambe. Noi lo buttiamo in acqua.” Nessuno impara a condurre la palla passando da un cono ad un altro e poi tornando indetro. Non ho mai visto, nè sentito che Bebeto, Cerezo, Pelè, Maradona, Neymar, Tevez abbiano appreso la loro tecnica in questa maniera.

Quando io ero il coordinatore del River Plate mi avvicinai ad un istruttore della nostra attività di base che stava svolgendo un’esercitazione in cui il giocatore doveva puntare uno di due coni di differente colore, dribblarlo e calciare in porta. “Quale è l’obiettivo?” gli chiesi. “Sto sviluppando il dribbling per mezzo di un’esercitazione neuro cordinativa”, mi rispose. “Io nel mio barrio questo gesto lo chiamavo gambeta” dissi “e la gambeta tiene un solo fondamento: l’engaño (la finta, ndr). E se tu mi dimostri come si inganna una cono io non lavoro più, mi ritiro. Schivare è una cosa, ingannare un’altra.”

La stessa cosa, ovviamente, vale anche per gli altri gesti tecnici, come il passaggio. File di venti giocatori, dieci per parte, per fare un passaggio frontale di cinque sei metri senza avversari. A cosa serve? Bisogna imparare a maneggiare tempi e spazi che si modificano, come accade nel gioco. Non ho mai visto file in partite. E allora perché si fa? Perchè è più facile. Quando sento dire dagli allenatori che “i ragazzi hanno lavorato” mi arrabbio. L’allenatore deve studiare i mezzi più adeguati ed allenanti, strutturando esercitazioni simili alla partita in cui sia presente l’elemento della ripetitività di ciò che sto allenando. E quindi l’allenatore lavora, il giocatore gioca.

Allenare le lacune e non consolidare le abilità, è un altro errore talvolta commesso durante la formazione di un giovane calciatore.

L’obiettivo del formatore e dell’allenatore – il regolatore è un’altra cosa ancora – è quello di migliorare i suoi giocatori. E come è che li miglioro? Potenziandone le virtù, non cercandone i difetti. Prendiamo ad esempio la squadra migliore degli ultimi anni, il Barcellona di Guardiola. Moltissimi giocatori hanno difetti: Dani Alves utilizza poco il piede sinistro, Piquè e Busquets sono lenti, Puyol, Xavi, Iniesta, Messi sono bassi. Perchè nessuno parla mai di questi loro difetti? Perchè hanno portato le loro virtù ad un livello talmente alto che quasi sembra non esistano.

Questo aspetto per me è fondamentale: sviluppare il più possibile le virtù dei calciatori e metterli nelle migliori condizioni possibili per esprimerle.

Cosa pensa della ripetizione durante l’apprendimento?

Io non credo alla ripetizione per apprendere. Se fosse così basterebbe mettere tre ore di fila una squadra intera a calciare per avere una squadra infallibile nella conclusione a rete. Penso che reiterare una cosa non faccia altro che soffocare la creatività. Non penso che David Beckham abbia passato più ore dei suoi compagni delle giovanili del Manchester United a battere le punizioni. O che Cristiano Ronaldo abbia fatto molti più tiri in porta di Khedira. Semplicemente esistono altre condizioni che hanno a che fare con altri aspetti, interni, relativi alla mappa celebrale dell’individuo che condizionano e creano, in alcuni giocatori, della abilità quasi innate.

Qual è la sua idea rispetto al concetto di tattica?

Non si può parlare di tattica senza nomi propri. Se io e te stiamo discutendo su chi dei due è più difensivo dell’altro tu magari mi puoi dire “io gioco con 3 attaccanti, sono più offensivo di te che invece giochi con solo 2”. Ma se, estremizzando, i tuoi tre attaccanti sono Albertini, Ambrosini e Gattuso e i miei due attaccanti sono Falcao e Maradona con, sugli esterni, Toninho Cerezo e Dani Alves, chi è più difensivo? Tu con tre attaccanti o io con due?

Quella dei numeri è una delle tonterie più grandi che ci sono nel fùtbol. Che significa giocare a 4 o 3 se non so chi sono i giocatori? In generale il mio pensiero sulla tattica è molto semplice:

Più i giocatori sanno giocare bene a calcio, più facilmente essi si sapranno adattare ad un sistema.

E dell’analisi?

Oggi si analizza qualunque cosa, tanto che sono nate tante nuove professioni. Chissà quante volte gli analisti delle squadre che hanno giocato Messi o Cristiano Ronaldo avranno analizzato le loro azioni. Eppure mi sembra che hanno sempre fatto gol, e ancora continueranno a farne.

Il problema dell’analisi è che si analizza sempre quello che è successo e ma non si potrà analizzare mai quello che sta per succedere.

Ha citato spesso Menotti come suo padre calcistico. Che eredità ha lasciato nel calcio professionista e formativo?

Le grandi rivoluzioni calcistiche degli ultimi anni sono stati il Milan di Arrigo Sacchi e il Barcellona di Pep Guardiola. Entrambi hanno pubblicamente ammesso che molte delle loro idee calcistiche hanno fondamenta nell’eredità lasciata da Cesar Luis Menotti. Basta questo per far capire l’eredità che ha lasciato al calcio.

Per quanto riguarda l’aspetto formativo, un po’ quasi mi vergogno a dirlo, ma lui mi ha nominato suo referente in quanto lui nella sua carriera non ha mai allenato a livello giovanile se non nella seleziona argentina in cui fu il mio allenatore, però credo che il suo lascito più grande abbia a che fare con il concetto di libertà di imparare a giocare prima a pallone, e poi contestualizzare le capacità apprese per imparare a giocare a calcio.

Prima si impara come usare la palla e poi si migliora con i concetti.

Per questo dico che risultati e formazione non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro, ma purtroppo mi rendo conto che questo che porta avanti è un messaggio controcultura. Ma non si tratta di metodo Ruben Rossi, no, questo non è il metodo di nessuno. E’ il fùtbol. Bisogna rimettere i concetti calcistici al centro di tutto. E i concetti calcistici o si sanno, o non si sanno. E quando non si sanno si parla di cose che non c’entrano nulla.

Per esempio?

Nel 1958, in Svezia, fecero uno studio psicologico sui calciatori della nazionale brasiliana che evidenziò in Garrincha in piccolo ritardo mentale per cui avrebbe avuto poche possibilità di restare in gruppo e il commissario tecnico di allora quasi lo stava per estromettere dal gruppo per questa sua infermità psicologica. A Garrincha, capisci? Furono i suoi compagni a chiedere all’allenatore di non escluderlo, rassicurandolo sul fatto che sarebbe stata loro responsabilità prendersene cura. Diventò il miglior giocatore della squadra. Capisci, c’è una confusione incomprensibile.

Il calcio è un'arte, al pari della musica, della danza, del teatro e a me risulta che tutte queste arti continuano ad insegnarsi come si faceva ai tempi degli antichi greci. Per questo penso che l'unico futuro che ha il fùtbol è il passato.