"Il mio modello? Stefano Vecchi, un profilo unico."
Essendo stato suo ex giocatore negli anni alla Tritium, con cui ha condiviso una doppia promozione dalla Serie D alla Lega Pro Prima Divisione, Alessio Dionisi, tecnico del Sassuolo, conosce molto bene Stefano Vecchi e in una recente intervista rilasciata al portale nazionale Tuttomercatoweb si è così espresso quando gli è stato chiesto quale sia l’allenatore a cui maggiormente si ispira.
In un’epoca sportiva in cui le idee rivoluzionarie di tecnici come Bielsa, Guardiola, o la scuola tedesca rappresentata da Rangnick, Klopp, Tuchel e Nagelsmann su tutti, stanno segnando – e cambiando – il pensiero metodologico globale, quasi stupisce il fatto che uno fra i giovani tecnici più sulla rampa di lancio del nostro calcio citi un allenatore che non appartiene all’elite del calcio mondiale come suo modello professionale. Eppure sono bastati pochi passaggi della nostra conversazione per comprendere l’unicità di mister Vecchi a cui Dionisi fa riferimento: capacità di mettere a proprio agio il suo interlocutore, dando vita ad un confronto aperto, alla pari e sincero, senza veli, chiarezza nell’esporre i contenuti del suo pensiero e una non banale dote di raccontarsi mettendosi anche in discussione, quando necessario.
Attualmente alla guida della Feralpisalò, nel suo percorso da allenatore Vecchi ha ottenuto tre promozioni nelle categorie superiori, di cui due consecutive, vinto una Supercoppa di Lega di Seconda Divisione, due Tornei di Viareggio, una Coppa Italia, una Supercoppa e due campionati Primavera, il tutto partendo da casa sua, fra i dilettanti.
Insieme abbiamo ripercorso il suo vissuto da tecnico, cercato di scavare un pò più a fondo nel comprendere le idee alla base del suo intendere il calcio. Ne è nata una piacevolissima conversazione, nel quale mister Vecchi si è messo a completa disposizione. Abbiamo parlato della sua esperienza giovanile, del suo periodo alla guida della Prima Squadra dell’Inter, di principi di gioco e di preparazione alla gara.
Quello che segue è l’elaborato scritto della nostra chiacchierata.
Mister, nella tua carriera hai allenato a tutti i livelli dalla Promozione alla Serie A. Il tuo approccio al ruolo è cambiato con il cambiare delle categorie?
E’ cambiato per forza di cose insieme al contesto. Nei miei primi passi da allenatore facevo tutto. Avevo appena smesso di giocare e in quegli anni mi dedicavo a 360° gradi alla Società del mio paese, il Mapello: allenavo tutti i giorni, alla sera, a giorni alterni, Prima Squadra e Juniores, mentre al pomeriggio mi dedicavo alla Scuola Calcio. Fu un anno che ricordo con grande piacere, sia per gli aspetti sportivi dovuti alla vittoria del campionato, sia per quelli umani.
Da lì in poi è stato un crescendo: alla Colognese, in Serie D, ho vissuto il cambio da quattro allenamenti in orario serale a cinque pomeridiani, mentre alla Tritium, con la vittoria del campionato di Serie D e di Lega Pro Seconda Divisione il mio percorso ha iniziato a prendere la forma del professionismo.
Da un punto di vista del lavoro sul campo, ancora oggi mi porto dietro il bagaglio tecnico e tattico maturato negli anni di dilettantismo in quanto a programmazione, scalette di lavoro quotidiano o anche esercitazioni, poi è chiaro che qualche aspetto del quotidiano è cambiato: quando hai meno tempo per lavorare come nei dilettanti si deve cercare di focalizzare l’attenzione sulle cose essenziali, con più allenamenti a disposizione invece si ha la possibilità di lavorare maggiormente nel particolare tecnico, tattico o fisico.
Dopo la Tritium, le esperienze sulle panchine di Spal e Sudtirol in Lega Pro, Carpi in B ed Inter Primavera. Come è nato il passaggio nel settore giovanile dopo anni di Prime Squadre?
Samaden, il responsabile del settore giovanile dell’Inter, è stato precursore di questo tipo di scelta, che poi si è ripetuta altre volte in futuro, in cui un allenatore di “grandi” è stato dirottato nel Settore Giovanile. Io sposai questa scelta con la consapevolezza che il campionato Primavera è l’ultimo step di formazione dei ragazzi e che in quanto tale deve necessariamente essere introduttivo ad un lavoro maggiormente da adulti, senza tuttavia perdere l’attenzione al dettaglio e al singolo di cui ti parlavo prima.
Questo però non è cosa né semplice né scontata. Spesso si tende ad etichettare un allenatore come “da settore giovanile” o “da prima squadra” sulla base del suo vissuto recente dando per scontato che chi lavora con i grandi non sia adatto per i giovani e viceversa. Ovviamente non credo che non si possa fare un passaggio di questo tipo, penso però che se all’allenatore viene a mancare la sensibilità di comprendere il contesto in cui opera, il rischio di sbagliare diventa molto elevato.
Hai pienamente ragione. Anzi, questa fu una delle prime cose che dissi a Samaden quando ci incontrammo. Il fatto che il direttore ricercasse per la sua squadra Primavera un profilo maggiormente orientato al mondo delle prime squadre fu però determinante per farmi accettare una sfida di quel tipo e vivere quell’esperienza senza la necessità di dover stravolgere nulla riguardo al mio modo di lavorare, di comportarmi, di relazionarmi e facendo si che anche esigenze e richieste rimasero identiche a come erano negli anni fra i “grandi”. Anche la gestione della settimana fu molto simile a quella che avevo nelle mie squadre precedenti, le partite venivano preparate allo stesso identico modo, con attenzione posta anche alle qualità dei nostri prossimi avversari e il supporto dell’analisi video. Per questo non è stato un problema per me calarmi nella nuova realtà.
L’unica grande differenza da un punto di vista gestionale rispetto agli anni passati, era dovuta al fatto che nel settore giovanile non ho mai previsto sedute o settimane di scarico. Abbiamo sempre lavorato molto per la costruzione del ragazzo, sia da un punto di vista fisico che tecnico.

Dal momento che il tuo approccio è rimasto lo stesso sia nel contesto giovanile che in quello di Prime Squadre, hai notato delle differenze di feedback ricevuti fra giocatori in formazioni e giocatori più evoluti? Penso soprattutto all’atto di correggere a livello individuale.
Si, decisamente, e questo sia quanto si tratta di un aspetto fisico che tecnico.
Col giovane hai maggiore possibilità di incidere sulla sua costruzione e quindi puoi permetterti di forzare sicuramente di più certi aspetti. Con i giocatori più esperti diventa invece necessario capire velocemente fino a che punti l’allenatore si può spingere nella richiesta. A volte è addirittura il giocatore stesso che ti dice quello di cui ha bisogno o il modo di fare le cose in cui si sente più a suo agio. In quei casi è importante saper ascoltare ed accettare punti di vista che magari sono differenti dal nostro, che non sempre è quello giusto per ogni situazione ed ogni persona.
Parliamo del tuo attuale percorso alla Feralpi Salò, iniziato l’anno scorso e al termine del quale la tua squadra ha raggiunto il terzo posto in campionato e la Final Four agli spareggi per l’ammissione in Serie B. Su che basi metodologiche nasce questa squadra che anche in questa stagione si sta riconfermando a livelli altissimi per la categoria?
Quando sono arrivato ho cercato di alzare il ritmo della squadra, delle aggressioni, della gestione palla, delle esercitazioni. A me piace avere una squadra che sia in grado di determinare e decidere il ritmo della partita, non voglio una squadra passiva, d’attesa. All’inizio del nostro percorso abbiamo fatto un po’ fatica a raggiungere un livello che fosse per me soddisfacente, poi però, dopo le prime cinque-sei giornate, abbiamo inanellato 14 risultati utili consecutivi che oltre a consolidare la fiducia nel lavoro fino a quel momento svolto ci hanno avvicinato alle prime posizioni, anche se Sudtirol e Padova l’anno scorso sono state quasi inarrivabili.
Le difficoltà iniziali erano preventivabili, abbiamo modificato il modo di occupare certi spazi, soprattutto nell’ultimo terzo di campo, siamo passati dal 4-3-3 dell’anno precedente al 4-3-1-2 attuando modi diversi di aggredire gli avversari e di portare uomini in area di rigore attraverso movimenti senza palla. Piano piano siamo cresciuti sia a livello collettivo che individuale e i risultati sono stati una conseguenza di questo miglioramento.
La gestione del ritmo della partita è un concetto su cui ormai quasi tutti gli allenatori cercano di avere il controllo. In che maniera provi a trasmettere questa idea e questa mentalità nella tua squadra?
Una mia caratteristica, che a seconda dei punti di vista può essere considerata come un pregio o come un difetto, è che chiedo sempre alle mie squadre di andare forte, sia in fase di possesso, con la ricerca della giocata in verticale, che di non possesso, con le aggressioni in avanti.
La nostra settimana prevede sempre dei lavori “settorializzati” a carattere generale sui nostri comportamenti per zone di campo, nella nostra trequarti, in zona di centrocampo, e nel terzo offensivo, poi chiaramente sulla base della squadra che andremo ad affrontare alla domenica, del loro modo di giocare e delle caratteristiche dei loro singoli elementi, certi dettagli, certe sfumature, possono essere modificati.

La fase di possesso invece come viene interpretata?
Mi piace avere uno “spartito” entro la quale si deve muovere senza che questo implichi il soffocare la creatività dei calciatori. Penso però che sia necessario avere delle conoscenze generali di ciò che potrebbe accadere in ogni determinata situazione. Poniamo l’esempio pratica del mediano in possesso di palla: bisogna sapere cosa faranno i compagni senza palla, se la mezzala andrà ad aprirsi o se rimarrà dentro al campo, se l’attaccante di parte attaccherà la profondità o se verrà incontro. Penso sia importante dare diversi tipi di soluzione, poi sarà il giocatore a scegliere quella che riterrà più appropriata sulla base della sua percezione della situazione.
Per questa ragione all’interno della nostra settimana sono previste esercitazioni in cui la contrapposizione è minima così come altre situazioni in cui invece la situazione è più simile all’ambiente di gara. Più che codifiche, quello che ricerchiamo è una costante occupazione di determinati spazi, sia in ampiezza che in profondità, a prescindere da chi vada ad occuparli. L’importante è che tutto il fronte offensivo sia coperto in modo omogeneo.
Nella tua idea di calcio, esiste un concetto uniforme di gioco o possono coesistere più stili?
L’evoluzione del calcio ha imposto uno sviluppo di conoscenze differente rispetto al passato. I giocatori attuali hanno una preparazione molto più elevata rispetto ai miei tempi, hanno la possibilità di rivedersi a video, leggere o guardare analisi di professionisti praticamente ogni giorno. Per questa ragione per me fare un solo tipo di calcio sarebbe riduttivo, soprattutto considerando che in virtù delle possibilità di accesso a video e analisi di cui ti parlavo prima anche gli avversari conoscono tutto di tutti. Più si ha la capacità di variare e più si diventa imprevedibili, e penso che il calcio moderno, soprattutto con l’introduzione della regola dei cinque cambi, stia andando in questa direzione.
Oggi quasi tutti i calciatori sono in grado di interpretare differenti sfumature dei propri ruoli che consentono di poterlo fare: interpretare una costruzione a 3 piuttosto che a 4 da parte della linea difensiva, capire quando il metodista deve abbassarsi nella linea oppure no, sapere quando la mezzala deve alzarsi in posizione di trequarti per attaccare la rifinitura avversaria…sono tutti movimenti che oggi si possono chiedere con più facilità rispetto al passato perché i giocatori capiscono immediatamente cosa gli stai chiedendo e che permettono di avere più moduli all’interno dello stesso sistema di gioco.
Penso al Milan che in costruzione alza il laterale sinistro, al Barcellona di Guardiola quando applicava l’uscita dal basso con la Salida Lavolpiana, o a Nagelsmann che abbassa i mediani lateralmente per costruire a tre. Sono tutte proposte che puoi fare sempre o in base alla singola partita e che bisognerebbe utilizzare per non correre il rischio di farsi limitare troppo dall’avversario.
Ti è mai capitato di dover utilizzare in partita un sistema di gioco che avevi preparato poco in settimana o su cui addirittura non avevi mai lavorato?
Si, è capitato, ma non è mai una situazione del tutto nuova per i giocatori. Ti spiego: sia l’anno scorso che in questa stagione abbiamo lavorato prevalentemente su due sistemi di gioco, uno base, il 4-3-1-2, ed uno alternativo, il 4-3-2-1.
Quando dobbiamo preparare una partita contro una squadra che utilizza un modulo differente al nostro, supponiamo un 3-5-2, io voglio che tutti i giocatori della rosa svolgano in settimana sia il ruolo di nostra “squadra tipo”, quindi con il nostro sistema di gioco ed i nostri concetti, che quello di sparring partner, e dunque con il modo di occupare gli spazi degli avversari.
Il fatto di alternare tutti a giocatori a svolgere entrambe le funzioni ci torna poi molto utile proprio nei casi in cui la gara ci impone di trovare soluzioni alternative come passare ad una difesa a 5, per esempio.
Oltre che ad essere un aspetto importante per quanto riguarda la gestione delle risorse umane…
Assolutamente, anche perché nell’arco di una stagione può capitare che giocatori che inizialmente avevano un ruolo più marginale diventino giocatori importanti, a maggior ragione in un contesto di settore giovanile dove può capitare la domenica in cui ti trovi con due,tre giocatori fuori per infortunio e la categoria superiore che ti chiede alcuni fra i ragazzi più bravi.
A me è capitato diverse volte all’Inter, quando Mancini o Spalletti chiedevano ragazzi per la Prima Squadra o addirittura quando vincemmo il Torneo di Viareggio con 10-12 giocatori titolari indisponibili perché in giro con le loro nazionali. Lì si misero in evidenza Zappa, Rizzo ed altri giocatori che fino a quel momento avevano giocato di meno ma che alla fine diventarono importanti.

All’Inter sei stato chiamato in due diversi momenti a guidare anche la Prima Squadra. Come è stata la tua gestione di quei giorni in un momento storico così particolare per i nerazzurri?
Per me è stato un passaggio quasi naturale, perché come Primavera vivevamo e condividevamo Appiano Gentile insieme alla Prima Squadra, e dunque una volta chiamato mi sono comportato con i grandi allo stesso modo in cui mi comportavo con i ragazzi.
La prima settimana abbiamo avuto pochissimo tempo per lavorare perché ci sono state subito due partite, una di Europa League fuori casa contro il Southampton ed una di campionato contro il Crotone, pertanto i concetti toccati sono stati pochissimi. Sapevamo che dopo la seconda partita sarebbe subentrato Stefano Pioli, pertanto ci siamo limitati a preparare le partite e lavorare sull’aspetto psicologico rendendo i calciatori maggiormente motivati e consapevoli delle difficoltà del momento.
Nella seconda parentesi, invece, la situazione era leggermente più problematica. La squadra era ormai fuori da tutti gli obiettivi e bisognava onorare le ultime tre partite rimaste con giocatori che avevano status emotivi molto differenti fra loro, fra chi era demotivato dalla brutta stagione, chi non era mosso da obiettivi che lo spingessero ad allenarsi con grande spirito e chi invece aveva ancora interesse a fare bene per via delle imminenti convocazioni nelle rispettive nazionali. Finimmo la stagione in maniera io credo decorosa, perdendo in casa col Sassuolo in maniera immeritata e vincendo le ultime due gare, 3-1 a Roma con la Lazio e 5-2 in casa con l’Udinese.
Preparazione psicologica e lavoro sul campo. I piatti della bilancia devono restare in equilibrio o nel tuo modo di lavorare c’è un aspetto che “pesa” più dell’altro?
Deve essere una cosa equilibrata. Qualsiasi esercitazione che si propone deve essere motivata, bisogna spiegare ai giocatori perché si sta facendo, e allo stesso modo, nel caso in cui si ha la percezione che i giocatori stiano andando sotto ritmo, bisogna trovare la chiave per motivarli e alzare il livello dell’intensità e dell’attenzione. In ogni allenamento non devono mancare mai gli aspetti tecnici, tattici e psicologici.
La cura della parte psicologica è un aspetto tanto importante quanto delicato, che da allenatore devi saper gestire.
Bisogna essere in grado di trattare tutti allo stesso modo, ma in modo diverso, sapendo cogliere chi si ha di fronte e come poter incidere.
Ricordarsi che prima del calciatore si ha di fronte l’uomo o il ragazzo non è cosa così scontata a volte…
Ti dirò di più. A volte si pensa che quando davanti hai il calciatore più forte della squadra non ci sia bisogno di dirgli “bravo”. Invece anche per i giocatori migliori una parola di aiuto, un incitamento o una conferma delle loro qualità sono importanti.
Allo stesso modo con chi è più in difficoltà bisogna essere in grado di evidenziare gli aspetti su cui deve lavorare ma, allo stesso tempo, incidere su di lui in modo positivo.

Come prepari una partita quando la situazione ambientale ed emotiva è più complicata? Penso, per esempio, all’anno scorso e alla semifinale di play-off contro il Palermo. I giorni precedenti alla partita sono stati gestiti in maniera particolare?
A grandi linee rimane la stessa, anche se adesso è molto difficile impostare una settimana tipo rispetto al passato. Si gioca a qualsiasi ora ed in qualsiasi giorno, nei play-off in particolare c’è una partita ogni 3-4 giorni.
Il nostro lavoro e le nostre richieste sono sempre le medesime, a prescindere dalle qualità della squadra che andremo ad affrontare, le differenze di preparazione che ci possono essere dipendono solo ed unicamente dal numero dei giorni di allenamenti che abbiamo a disposizione prima di arrivare al giorno della gara.
Anche da un punto di vista cognitivo?
Dipende anche qui da chi si va ad affrontare. Quando la squadra che affronteremo è un po’ più “monocorda”, poniamo più enfasi al lavoro sui nostri principi, quando invece presentano varietà tattica, con varianti e soluzioni diverse, l’attenzione è maggiormente incentrata agli avversari piuttosto che su noi stessi.
Da un punto di vista di gestione delle emozioni invece ci sono partite che richiedono una capacità maggiore di sdrammatizzare certi momenti, bisogna essere in grado di capire quando e come farlo in funzione del momento e dei ragazzi.
Quanto incide il fattore ambientale nella quale si andrà a giocare in fase di preparazione della partita?
E’ logico che in certe piazze vivi maggiormente l’esaltazione di certi momenti positivi così come il malumore nei periodi negativi. Stadi “caldi” come quelli di Palermo o Padova, due fra i più recenti in cui ci siamo misurati, possono trascinarti con il calore dei tifosi, ma non hanno la tranquillità di piazze più piccole come la nostra.
Per quanto riguarda la preparazione della partita è chiaro che riprodurre il fattore ambientale in settimana è impossibile, pertanto si fa più affidamento sul fatto che in partite importanti le motivazioni vengono da sè, mentre al contrario si cerca di essere più incisivi, a tratti pesanti, nella preparazione mentale ed emotiva quando devi giocare in ambienti meno coinvolgenti.
Qual è il tuo rapporto con lo staff?
Sto ancora imparando! Come ti raccontavo mi sono formato nel mondo dei dilettanti in cui sono stato abituato ad occuparmi di tutto in prima persona e questo ha sicuramente influenzato il mio modo di lavorare. Pur avendo sempre avuto staff molto competenti faccio un po’ di fatica a delegare, soprattutto quando si lavora sull’aspetto tattico.
Ci sono allenatori che delegano molto anche gli aspetti macro, io cerco di lasciare ai miei collaboratori il giusto spazio durante le sedute, ma di lavorare in modo diretto durante le esercitazioni, soprattutto quelle in cui vengono curati gli aspetti principali del nostro gioco.
