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L’esordiente che ha ammutolito il Wanda Metropolitano. Intervista ad Alessio Lisci

La storia di Alessio Lisci è la storia di molti: giovane, ambizioso, con il sogno nel cassetto di trasformare, un giorno, la sua passione in professione. La storia di Alessio Lisci, è però anche unica: partito da tirocinante universitario, ha trovato – o forse sarebbe meglio dire si è formato – la sua strada in Spagna, dove, dopo aver ricevuto una possibilità nelle giovanili del Levante si è fatto largo negli anni, fino ad esordire, nel dicembre 2021, sulla panchina dei granotas, nella Liga spagnola. 

“Studiavo Scienze Motorie al Foro Italico, e iniziai il mio percorso da allenatore facendo un tirocinio alla Lazio. Terminato il master vinsi una borsa di studio per lavorare all’estero e mandai il mio curriculum a moltissime società. Alla fine, fra quelle che mi risposero, decisi di andare al Levante perchè mi permetteva di fare tirocinio con la loro squadra Primavera. Dovevo stare 6 mesi, alla fine sono in Spagna da 11 anni.”

Un percorso, quello all’interno del club valenciano, che si è interrotto lo scorso giugno dopo aver solo sfiorato l’impresa di salvare una squadra che al momento del suo arrivo sembrava già spacciata, con nessuna vittoria all’attivo, ma che, nella sua disperata rincorsa alla salvezza sotto la guida di Lisci, è stata in grado di compiere imprese al limite dell’eroico, come battere l’Atletico Madrid al Wanda Metropolitano o il Villareal vincitore dell’Europa League, raccogliendo elogi come quelli fatti pubblicamente da Xavi in conferenza stampa prima della sfida contro il Barcellona. 

Mister, partiamo dal principio. Come si lavora all’interno di un settore giovanile in Spagna? Quali sono le maggiori differenze metodologiche che hai riscontrato rispetto a quelli italiani?

Non è semplice rispondere a questa domanda perché vivo in Spagna da ormai 11 anni e da quando sono partito ad oggi in Italia ci sono stati molti cambiamenti. Italia e Spagna hanno fatto due percorsi evolutivi differenti perché era diverso il punto di partenza, ma credo che entrambe si stiano stabilizzando in un punto di equilibrio fra le due linee di pensiero. Le nuove generazioni di allenatori e la globalizzazione, anche sportiva, hanno avvicinato tanto le differenti filosofie di gioco, rendendo la nuova metodologia italiana per certi aspetti molto simile a quella spagnola. Anche in Spagna la cultura calcistica è evoluta rispetto a qualche anno fa. Quando arrivai in Spagna si era nel pieno del “guardiolismo”, il pensiero collettivo era indirizzato sempre e solo ad attaccare, mentre adesso, pur rimanendo intatto il concetto di dominio di tutte le fasi, il pensiero è molto meno estremista.

Lo stesso vale per la metodologia di allenamento: In Spagna si è passati da svolgere attività solo ed esclusivamente con palla ad un punto più intermedio. In Italia, invece, in passato la tendenza era quella di utilizzare poco il pallone e in quel poco tempo svolgere lavori per lo più analitici, mentre ora la quantità di situazionale all’interno delle sedute è aumentata in maniera importante, in alcuni casi anche troppo. A volte sembra che se non si sappiano fare fare giochi di posizione, possessi o partite a tema, non si possa allenare.

Qual è il tuo pensiero sui giochi di posizione? Come hai accennato tu, personalmente penso che siano un mezzo allenante sicuramente utile, ma che presentano la criticità di non avere un’unica direzione di gioco e soprattutto di non prevedere una fase fondamentale della gara che è quella della finalizzazione.

Nei giochi di posizione, così come in tutte le situazioni che si vanno a ricreare in allenamento, la cosa fondamentale è avere ben chiaro in testa quello sulla quale si vuole lavorare, perché il rischio è quello di svolgere esercitazioni senza però lavorare in maniera concreta su nulla. Vanno creati e svolti in maniera precisa ed accurata per le esigenze della squadra.

Un aspetto fondamentale nei giochi di posizione è la voce dell’allenatore, intesa come tipo di correzione che viene apportata durante lo svolgimento. Per quella che è la mia esperienza ti posso dire che è determinante: credo fermamente nel fatto che anche la peggiore esercitazione del mondo possa prendere valore se le correzioni al suo interno sono di qualità, così come la migliore esercitazione possibile sulla carta lo può perdere se la voce che la conduce non è buona.

A me personalmente i giochi di posizione piacciono, ma bisogna saperli utilizzare nel contesto e con la frequenza corretti, non si possono fare tutti i giorni perché la specificità dell’esercitazione è molto importante.

Il problema dell'allenamento sistemico è che talvolta si nasconde dietro alla proposta situazionale l'incapacità dell'allenatore di entrare nel dettaglio micro.

Quando parli di dettaglio micro a cosa ti riferisci in particolare?

Per me le correzioni che si apportano nel micro sono quelle che poi fanno la differenza in situazione per cui è un aspetto che curo moltissimo. Con il mio staff, solitamente nel periodo subito successivo alle settimane di precampionato, sono solito effettuare una riunione tecnica nella quale stabiliamo una lista di obiettivi individuali per ciascun giocatore e molti di questi sono aspetti micro su cui nell’arco della stagione il calciatore stesso si potrà auto valutare con l’ausilio mio, sul campo, e dei miei collaboratori in sala video con i quali si confrontano con cadenza settimanale circa.

Lavori con una cadenza specifica predefinita su questi aspetti o sono elementi che tratti nel quotidiano all’interno della seduta globale?

Ci lavoriamo quotidianamente, in ogni tipo di proposta che andiamo a svolgere. Come ti dicevo prima gli obiettivi sono concordati, e dunque ogni membro dello staff è a conoscenza di tutto ciò che intendiamo migliorare in ogni singolo giocatore e di dove e come deve incidere attraverso i feedback nel momento in cui quel determinato aspetto viene a verificarsi.

Per ogni esercitazione abbiamo dunque obbiettivi globali, comuni a tutta la squadra, ed altri micro, che talvolta possono essere uguali per tutti altre volte sono invece una varietà di obiettivi individuali.

Quanto è importante condividere questi obiettivi individuali con il calciatore stesso?

Molto. E’ fondamentale che siano condivisi perché il calciatore deve essere il primo ad essere convinto di dover migliorare. 

Se la cura del dettaglio finalizzata alla crescita del singolo rappresenta il nucleo del lavoro del settore giovanile rappresenta – o per lo meno dovrebbe – la normale metodologia operativa, in Prima Squadra il contesto è differente. Hai incontrato resistenze da parte dei calciatori in relazione a questo approccio?

No, non ho mai avuto nessun problema, chiaramente però è una proposta che bisogna saper adattare in funzione di a chi la si propone.

Con il giocatore del settore giovanile il confronto può essere più approfondito, tendo a farlo pensare di più di quanto invece non faccia con un giocatore più evoluto, con il quale il confronto è solitamente più rapido ed incisivo e non comprende l’autovalutazione mensile, per esempio. In ciascuno dei due casi il lavoro è sicuramente aiutato da una situazione oggettiva che l’analisi video ti può fornire e su cui sia allenatori che giocatori poggiano le convinzioni sulla bontà del percorso di miglioramento.

Una volta ascoltando Dionisi fui colpito da un passaggio di un suo discorso in cui paragonò ogni calciatore a sua disposizione ad un’azienda. Per me è una verità assoluta: se il giocatore sente che tu lo stai migliorando lui è il primo a mettersi a disposizione, a 18 anni come a 35.

Parliamo della tua esperienza in Liga. Sei stato promosso alla guida della Prima Squadra del Levante ereditando una situazione a dir poco critica. Ultima in classifica dopo 15 giornate con nessuna vittoria nelle ultime 22 partite giocate, conteggiando anche le partite finali del campionato precedente. Quali sono stati gli aspetti prioritari su cui hai cercato di intervenire?

Il problema legato al mio subentro in Prima Squadra è stato che appena nominato ho dovuto preparare immediatamente una partita di Coppa del Rey e subito dopo un’altra di campionato, contro l’Osasuna, senza aver la certezza che sarei rimasto sulla panchina.

La priorità immediata era evidentemente legata all’aspetto mentale, anche se questo era collegato anche ad un altro di natura tattica: negli anni precedenti la squadra aveva lavorato molto tempo con un allenatore con un’idea di gioco molto offensiva, in seguito al suo esonero si passò invece ad una mentalità diametralmente opposta, ma in entrambi i casi la squadra non andò mai, nel migliore dei casi, oltre al pareggio.

Il tarlo che si era insinuato nei giocatori era davvero molto pericoloso, il rischio era quello che questo senso di impotenza prendesse il sopravvento rendendo inutile ogni tipo di sforzo per reagire. L’inizio fu incoraggiante (8-0 con l’Huracan in coppa e 0-0 con l’Osasuna in Liga, ndr) ma le successive tre partite di campionato furono difficili perché ne perdemmo due in maniera più che rocambolesca per 4-3 pur dominando la partita contro Espanyol e Valencia, e soccombemmo malamente 5-0 col Villareal fuori casa prima di raccogliere la prima vittoria contro il Maiorca la giornata successiva.

Quali furono le tue prime parole allo spogliatoio una volta nominato allenatore?

In quei giorni sulla squadra piovevano molte critiche, i giocatori erano molto sfiduciati per cui cercai fin da subito di incidere molto sulla loro autostima. La prima cosa che dissi allo spogliatoio fu che per me erano calciatore davvero molto forti. Cercai di spiegare loro che venendo dal basso avevo avuto la fortuna di vedere e toccare con mano le differenze tecniche che c’erano fra una categoria all’altra e per me che negli anni precedenti avevo allenato sia la squadra Primavera che la squadra B, il loro livello era davvero altissimo. Non furono parole di circostanza ovviamente, il mio pensiero era realmente quello, i giocatori dovevano solamente rendersene conto.

E come hai gestito la serie di partite negative in cui la tua squadra, già nel pieno delle difficoltà di cui parlavamo in precedenza, non ha raccolto quanto avrebbe meritato?

In quei momenti devi solo continuare a lavorare e alimentare costantemente l’aspetto motivazionale affinché la squadra rimanga viva e non getti la spugna. I supporti video in questi casi possono essere molto d’aiuto, mostrare alla squadra aspetti del gioco che domina bene o altri comportamenti individuali positivi può diventare uno strumento importante per incidere sulla testa dei calciatori. Chiaramente l’analisi di quel momento è stata molto approfondita ed oltre all’aspetto emotivo abbiamo cercato di intervenire anche su altri aspetti come quello tattico per esempio.

Proprio soffermandoci sull’aspetto tattico, durante la tua gestione la squadra ha cambiato molto spesso sistema di gioco da una partita all’altra. Siete partiti con il 4-2-3-1, per poi passare al 4-3-3, al 4-4-2 e terminare con la difesa a 3. Quali sono stati i motivi che hanno portato la tua squadra ad essere così “fluida”?

Dopo la pesante sconfitta con il Villareal ho deciso di passare alla difesa a 3 per rinforzare e proteggere maggiormente l’asse centrale perché i gol subiti iniziavano ad essere davvero troppi: 4 con l’Espanyol, 4 con il Valencia e 5 con il Villareal. Capisci bene che con una media di 4 gol subiti a partita la fase offensiva perde completamente di valore perché segnare cinque reti ogni domenica è praticamente impossibile.

A livello tattico, da un punto di vista offensivo soprattutto, il passaggio non fu così “invasivo”, già con la difesa a quattro eravamo comunque abituati a mantenere un’ultima linea di tre in fase di possesso.

La cosa fondamentale, più che altro, fu quella di fare capire alla squadra il perché di quel cambio e quali vantaggi avremmo potuto avere nelle due fasi di gioco.

Oltre che in termini di occupazione degli spazi in campo, il tuo Levante ha mostrato anche di saper variare il tipo di approccio difensivo, portando, nel corso della stagione, una pressione molto più alta ed indirizzata sull’uomo. Da quali esigenze è nato questo cambio?

Il cambio in realtà avvenne dopo un periodo per noi tutto sommato positivo in termini di risultati, perché vincemmo al Wanda Metropolitano contro l’Atletico Madrid, pareggiammo col il Celta Vigo e vincemmo con l’Elche in casa prima di perdere contro Athletic Bilbao e Osasuna e pareggiare 1-1 la gara di ritorno con l’Espanyol. Queste partite avevano però evidenziato molti problemi da parte nostra nel mantenere un blocco alto: trovavamo avversarie che giocavano con i terzini molto corti e le ali aperte, costringendoci ad abbassare molto il baricentro e a trovare molte difficoltà a saltare gli esterni avversari.

Abbiamo dunque provato a cambiare il modo di andare a prendere gli avversari, portando un pressing molto più alto, stile Atalanta o Torino, e devo dire che fu un’intuizione piuttosto azzeccata perché da quel momento in poi vincemmo diverse e in quelle che non abbiamo vinto ci siamo andati vicinissimo. Contro il Barcellona sbagliammo il rigore del possibile 2-0 e poi subimmo il gol del 2-3 finale all’ultimo minuto, con il Siviglia sbagliammo diverse occasioni per pareggiare… siamo sempre stati in partite contro qualunque avversario, a parte l’ultima contro il Real Madrid dove onestamente non ci fu partita.

Volontà nel determinare ogni fase della partita attraverso la qualità del gioco e necessità di ottenere risultati per raddrizzare una situazione di classifica catastrofica: quanto è stato complicato bilanciare questi due aspetti?

Chiaramente nel mio caso non è stato semplice. In quel tipo di situazioni è molto importante sapersi dare un ordine di priorità e procedere per gradi. Noi abbiano cercato di trasmettere pochi concetti ma chiari, per poi, una volta iniziato a dominarli, aggiungerne di nuovi.

La nostra è stata una dinamica crescente, sia per quanto riguarda la proposta sul campo che per i risultati. In Spagna tutti dicevano che con un paio di partite in più ci saremmo salvati e sono convinto anch’io che sarebbe stato così.

Considerando i risultati dalla giornata in cui sono arrivato a fine campionato, siamo stati a +6 dalla salvezza, mentre nel girone di ritorno saremmo stati a -2 dall’Europa League.

Che importanza dai ai sistemi di gioco?

Quando lavori per principi il cambiare sistema di gioco non diventa un grosso problema a livello offensivo, mentre a livello difensivo può portare qualche scompenso.

Se si guarda a ciò che accade in Serie A, per esempio, si può notare come alla fine tutte le squadre giochino sempre con lo stesso sistema di gioco. I giorni per allenarsi con i calendari attuali sono davvero pochissimi e non c’è molto tempo per assimilare nuovi concetti. Possono cambiare i dettagli del piano partita ma se vuoi avere un’identità ben precisa devi cercare di apportare meno cambi possibili.

Lo stesso discorso vale per i grandi allenatori, ognuno di loro ha un sistema di gioco di riferimento.

Nella tua metodologia di lavoro, qual è il rapporto fra codifica e creatività?

Credo che, come in tutte le cose, sia fondamentale avere equilibrio. Ti porto l’esempio della nostra sottofase di costruzione: avevamo dei principi importanti, ma anche alcune soluzioni più codificate per superare la linea di pressione. Alla fine entrambe le soluzioni hanno la finalità di far conoscere ai giocatori dove si possono aprire gli spazi in funzioni di un determinato movimento nostro o degli avversari e, soprattutto, il perché vogliamo liberare una certa zona di campo.

Parlando di principi di gioco, oggi moltissime squadre, soprattutto quelle di classifica alta o medio alta, sono accomunate da idee molto simili fra loro in entrambe le fasi: voglia di determinare in ogni fase della partita, attaccare con molti uomini per avere la possibilità di essere veloci ed aggressivi nelle transizioni, difendere restando il più alti possibile… C’è qualche principio o sottoprincipio che caratterizza la tua idea di calcio?

E’ vero, nel calcio moderno i principi di gioco sono diventati molto simili, soprattutto per le squadre che vogliono fare un certo tipo di calcio. A tutti piace avere squadre che praticano un calcio sempre offensivo e propositivo, ma poi bisogna anche fare i conti con la realtà e confrontarsi con i propri giocatori, con la situazione, con l’ambiente, il DNA della società e tanti altri aspetti che incidono non poco.

Ciò che marca maggiormente l'identità di una squadra, oggi, sono i sottoprincipi, cioè il dettaglio e l'interpretazione degli stessi.

Durante i miei allenamenti cerco di incidere molto sulla lettura e sull’interpretazione degli spazi, per la mia idea di calcio è fondamentale che i calciatori siano in grado di crearli, visualizzarli ed occuparli.

Nel calcio degli adulti, hai percepito difficoltà o resistenze nel percorrere un metodo di lavoro così tanto incentrato sulle capacità cognitive dei singoli?

Per il poco tempo che abbiamo avuto a disposizione non è stato difficile. Chiaramente abbiamo dovuto “incastrare” questo tipo di lavoro nel mezzo di preparazioni specifiche della partita piuttosto che sedute di scarico con una percentuale maggiore di analitico per abbassare i carichi di lavoro.

Una delle grandi fortune che ho avuto è che la squadra, ancor prima che io la prendessi, dominava già un aspetto importantissimo che era l’attacco della profondità. La squadra lo faceva molto bene, possiamo dire che era il marchio di fabbrica del Levante e ho solo dovuto proseguire nel rinforzare un tratto distintivo già marcato.

La visualizzazione degli spazi in appoggio era invece qualcosa sulla quale avevamo più difficoltà nel riconoscere. Avendo poco tempo a disposizione, per correggere questo aspetto ho utilizzato un approccio diverso, un po’ più “meccanico” che “liquido”. L’obiettivo era quello di cercare delle posizioni di giocatori in campo che ci permettessero di avere delle linee di passaggi costanti, pulite e vicine.

E’ fondamentale riuscire a modulare idee e proposte in funzione delle caratteristiche dei tuoi giocatori: sarebbe stupendo avere una squadra fluida in cui tutti si muovono per la creazione e ricerca costanti di spazi nuovi, ma è un tipo di calcio che devi essere in grado di dominare al 100%, altrimenti il rischio è quello di andare incontro a transizioni continue.

Noi eravamo in un momento molto particolare dovuto alla nostra situazione di classifica e in partita la palla bruciava fra i piedi dei calciatori. Avere dei riferimenti posizionali più sicuri ci ha aiutato nella gestione delle fasi del gioco, soprattutto nelle transizioni, dove ogni errore, qui in Spagna, si paga a carissimo prezzo.

Idee dell’allenatore e modello di gioco non vanno sempre di pari passo dunque…

Non sempre. Chiaramente l’ideale sarebbe che idea e modello coincidano ma spesso bisogna fare di necessità virtù con il materiale tecnico e umano che hai a disposizione. Sarebbe da folli provare a replicare il Barcellona di Guardiola senza giocatori con un tasso tecnico elevatissimo, posto che anche in questo caso il “copia ed incolla” non funziona quasi mai.

Penso che questo tema del rapporto fra idee e modello di gioco, sia un argomento che debba essere sempre analizzato con estrema delicatezza. La tendenza è sempre quella di etichettare un allenatore come fautore di uno stile piuttosto che di un altro solamente osservando una singola stagione, quando invece per giudicarlo bisognerebbe prendere in esame tutta la sua carriera, osservandone l’evoluzione. Allenatori come Gattuso, Spalletti o Pioli sono cambiati moltissimo rispetto ai loro inizi, il loro percorso di studio e di aggiornamento li ha portati a variare completamente la loro proposta e le loro idee, ed oggi sono, a mio avviso, alcuni fra gli allenatori più importanti che abbiamo in Italia.

Come alleni te stesso per aggiornare costantemente la tua metodologia di lavoro?

Attraverso l’auto analisi e ponendomi obiettivi. Cerco molto il confronto con i componenti del mio staff alla ricerca di sfumatura del mio lavoro sulla quale posso e devo migliorare.

Oltre a questo il miglioramento passa anche attraverso il contesto: la categoria ti migliora.

Io ho avuto la fortuna di potermi confrontare ogni anno con una categoria diversa e sempre più alta di quella dell’anno precedente, sia da vice che da primo allenatore, potendo sperimentare soluzioni che ho poi utilizzato, in maniera più consolidata, negli anni successivi.

L’anno scorso, per esempio, abbiamo terminato la stagione al Levante portando una pressione uomo contro uomo a tutto campo, una cosa che solamente alcuni anni prima non avrei mai pensato di fare ma che ho potuto. La mia voglia di studiare mi ha portato a varcare i confini delle mie convinzioni e ad approfondire meglio questo approccio difensivo. Ho studiato attentamente allenatori come Gasperini e Juric e ho scoperto un mondo nuovo che mi è stato poi utile anche in partite complicatissime come Siviglia e Villareal.

E' fondamentale che un allenatore approfondisca ogni cosa, anche quella che a primo impatto non lo convince, perché solo così può crescere e migliorare.

Metaforicamente parlando si può dire che è come quando un turista va in vacanza una settimana in una città che non ha mai conosciuto: potrà averne un’idea di massima, ma non potrà mai parlarne come chi ci vive, perché non la conosce.

C’è qualcosa a livello tattico che non ancora provato o qualche altro aspetto che credi possa diventare importante nel prossimo futuro?

Guarda, da molto tempo dico che lo step successivo del calcio sarà arrivare ad avere una comunicazione più diretta con i calciatori in campo e proprio recentemente, a tal proposito, è uscita la notizia che la nazionale spagnola ha installato un microfono nelle pettorine GPS dei calciatori.

Trovo che sia un mezzo fantastico.

A livello tattico, invece, ho sperimentato talmente tanto che al momento trovo difficile trovare un’idea sulla quale non abbia già lavorato.

Allenamento: lavori per principi o maggiormente codificati, mezzi analitici o situazionali. Qual è il tuo approccio metodologico?

Sto sempre nel mezzo, non esistono allenamenti che siano solo globali o sono analitici, la differenza sta nella percentuale di tempo di lavoro di ogni cosa, che cambia per ogni squadra in cui si lavora. Per cultura del Paese in cui si lavora, background dei calciatori…

C’è sempre bisogno di varietà, perché quando varia lo stimolo il giocatore reagisce più volentieri e, soprattutto, ha più capacità.

Per finire, mister: a chi si ispira Alessio Lisci?

A nessuno in particolare. Mi piace studiare e cerco di prendere il buono da tutti gli allenatori che osservo. Ogni allenatore ha sempre qualche dettaglio o aspetto macro che può essere d’ispirazione.