In un’epoca digitale come quella attuale, in cui tempi e distanze di comunicazione vengono praticamente azzerati dalle innumerevoli possibilità dei mezzi a nostra disposizione, mister Massimiliano Bellarte rappresenta una piacevole eccezione – insieme a poche altre – ad un mondo tradizionalmente chiuso e conservativo come quello dello sport, in cui gli addetti ai lavori mantengono spesso una barriera protettiva fra i propri pensieri o le proprie idee e l’esterno.
Dal gennaio 2014 infatti, l’attuale C.T. della nazionale italiana di futsal, oltre che della selezione U19, cura e gestisce in prima persona i contenuti delle sue pagine ufficiali di Facebook ed Instagram, le quali col tempo sono diventate vere e proprie fonti di ispirazione per tecnici ed addetti ai lavori oltre che un fantastico biglietto da visita dal quale ho preso spunto per approfondire insieme a lui il “Bellarte pensiero”.

Mister, partiamo proprio da una tua pubblicazione: “la cosa complessa non è conoscere il gioco, ma conoscere il giocatore. Chi conosce il giocatore conosce il gioco.” Gli elementi di gioco e giocatore emergono in maniera ridondante nei tuoi contenuti. Che relazione hanno nella tua idea di “essere allenatore”?
Il concetto alla base del mio pensiero è che il gioco appartiene al giocatore. E’ naturale quindi che affinché l’allenatore possa essere abile ad orientare il gioco, dovrà prima essere in grado di poter orientare il giocatore. Quello dell’allenatore è un ruolo estremamente delicato, in cui bisogna essere in grado di “entrare nel gioco” pur non giocando, offrendosi al giocatore in maniera attiva, propositiva e soprattutto positiva.
Un buon coach non orienta solo il gioco, ma anche le performance individuali – basti pensare a quanto può influire sull’aumento o sulla diminuzione della fiducia, per esempio – ed è per questo che è fondamentale che sappia come relazionarsi con i propri giocatori affinché i suoi orientamenti e i suoi interventi possano essere interpretati in maniera efficace.
Sapendo che i soggetti all’interno di un processo di apprendimento devono essere coscienti dei comportamenti necessari durante la situazione di apprendimento (gli esercizi) affinché possano direzionare il loro focus attentivo, come orienti i tuoi interventi all’interno degli allenamenti nei casi in cui un giocatore mostri difficoltà nel comprendere il gioco?
E’ chiaro che in casi del genere gli interventi dell’allenatore possano essere più frequenti rispetto a quelli con altri giocatori con un grado di conoscenza del gioco maggiore. L’intenzione alla base degli orientamenti è sicuramente quella di accrescere la sua memoria tattica, ma bisogna fare molta attenzione affinché gli interventi stessi non diventino limitanti per il calciatore. E’ un processo che richiede tempo e in cui l’allenatore deve avere la sensibilità di intervenire senza pretese di stravolgere la natura di un comportamento.
Quello di cui stiamo parlando mi sta capitando attualmente con un ragazzo della selezione U19, un giocatore dalle qualità tecniche e fisiche importanti ma che non ha grande capacità di lettura. Mi capita spesso di intervenire nei suoi confronti e molte volte gli dico di “ascoltare e dimenticare” i miei consigli per non sovraccaricarlo di informazioni che avrebbero solamente l’effetto contrario a quello desiderato. So che un domani tornerà a fare ciò che ha sempre fatto, ma col tempo lo farà con quei vincoli, che nel frattempo avrà metabolizzato, che lo porteranno a comprendere maggiormente il gioco.
Qual è il tuo rapporto con la manipolazione delle attività durante l’operatività dell’allenamento?
La manipolazione dell’attività è un qualcosa che ogni allenatore deve saper maneggiare per poter raggiungere lo scopo che sottende un’esercitazione o intera seduta. Nel futsal, una delle giocate più utilizzate è la ricerca del pivot, il vertice avanzato che il più delle volte si trova in posizione laterale sul suo piede forte. E’ una soluzione che le squadre che giocano 3+1 cercano frequentemente, ma che può portare a delle criticità nei casi in cui il pivot non riesca a controllare la palla o venga anticipato dal difensore. Insieme al mio collaboratore Vanni, abbiamo dunque studiato un’esercitazione che ci potesse permettere di lavorare sia sulla costruzione 3+1 che sulle transizioni difensive con un’asimmetria di 3 contro 4 quando il pivot viene tagliato fuori, e questa struttura prevedeva delle limitazioni: negli spazi, perché la porzione di campo era ridotta e nelle scelte, perché si forzava la richiesta di una giocata in una determinata zona ad un determinato giocatore.
Una regola che invece ho completamente abbandonato durante il mio percorso di formazione come tecnico è quella relativa alla limitazione dei tocchi di palla: il numeri dei tocchi viene regolato dal gioco e non può essere qualcosa di imposto dall’allenatore. Anzi, si tratta di un’imposizione che porta molto lontano da quel “voler giocare per giocare” che contraddistingue tutti coloro che approcciano a questo gioco.
L'aspetto ludico tipico del gioco non dovrebbe mai essere inficiato dalle direttive tattiche dell'allenatore.

Uno degli obiettivi dell’allenamento è quello di contrastare la lentezza del cervello attraverso lo sviluppo cognitivo del giocatore. Qual è il tuo punto di vista al riguardo?
Io non credo alla presa di decisione all’interno di un campo di futsal, così come non può accadere nemmeno nel calcio, dove lo spazio di fase in prossimità della palla equivale, per dimensioni, al campo di futsal.
Nelle situazioni in cui spazio e il tempo sono così limitati e l’ambiente è in costante mutamento, non esiste il tempo materiale per poter elaborare un pensiero cosciente, il processo presa di informazioni – elaborazione – scelta – attuazione motoria non avviene nel gioco. Nel gioco esistono solo comportamenti emergenti in funzione di un ambiente circostanziale in costante mutamento.
Ha senso secondo te proporre una distinzione fra errore tecnico ed errore cognitivo?
Ogni errore, anche quello tecnico, proviene comunque da una situazione interpretata e quindi da un fondamento di tipo cognitivo: quanto ho assunto informazioni prima di ricevere palla, quanto ho assunto un orientamento corporale corretto per effettuare un controllo o un passaggio, quanto ho compreso di ciò che sta accadendo… E’ chiaro che se l’errore fosse puramente tecnico non saremmo davanti ad un giocatore di futsal o di calcio. Per lo meno non di alto livello ovviamente.
Se l'approccio è sistemico non posso distinguere fra errore tecnico e cognitivo.
Anche un errore tecnico partirà comunque da un comportamento non adeguato assunto in precedenza dal giocatore e per correggerlo avrò bisogno di farlo ritrovare in quella situazione più e più volte affinché emerga il comportamento giusto per poterla risolvere in relazione al contesto di gioco. Nel calcio non può esistere un comportamento che non sia relazionato all’ambiente.
Un altro tuo pensiero condiviso nella tua pagina parlava di ruolo di allenatore come quello di “disegnatore di contesti. I giocatori dovrebbero cercare di destabilizzare sempre questi contesti per provocarne altri ed altri ancora…” Cosa intendi con questa affermazione?

L’allenatore non deve far altro che valutare le situazioni in cui il giocatore deve imparare a riconoscersi. “Riconoscere” è per me la parola chiave di tutto: un giocatore deve imparare a riconoscere le situazioni, riconoscere se stesso all’interno di esse, riconoscere compagni, avversari… Se io devo creare ambienti affinché il giocatore sia in grado di riconoscere una determinata situazione ed eseguire al meglio le sue funzioni, il calciatore dovrà invece in qualche modo destabilizzare l’attività e rendere il contesto precedente meno efficace. Quando un giocatore, attraverso il suo comportamento, mi fa capire che quella determinata attività non gli da più problemi nel modo di riconoscersi o effettuare gesti tecnici, significa allora che dovrò creare un nuovo contesto nel quale il giocatore vive il problema in maniera tangibile.
Creare contesti complessi, così come è la natura del gioco, senza semplificare un qualcosa che non può essere né semplificato né scomposto…
Assolutamente. Il gioco è un caos e non si può mettere ordine al caos, bisogna solo imparare a conviverci attivando tutte quelle funzioni necessarie per starci dentro.
Nel calcio, così come nel futsal, i problemi non si risolvono. Se li risolvessi significherebbe che non si ripresenterebbero più, ma non è così. Si impara a convivere con il problema, ad agire dentro di esso.
E’ chiaro che tanto più i giocatori di una squadra riescono a sviluppare queste capacità di “riconoscere” tanto più questa squadra è in grado di rispondere in maniera fluida ed univoca alle differenti situazioni di gioco di una partita. In questo senso, quando secondo te una squadra “gioca bene”?
Una squadra gioca bene quando giocano bene tutti gli attori che compongono quella squadra. Ogni prestazione collettiva dipende sempre dalla qualità di coloro che sommano il loro valore. Non esiste squadra che possa giocare bene se non ha giocatori forti nelle situazioni di uno contro uno, o in fase di finalizzazione, piuttosto che di rifinitura. E’ chiaro che poi queste doti individuali debbano essere assemblate in maniera coerente per poter avere una squadra, un collettivo che possa giocare bene. Credo che il calciatore abbia tantissima importanza, talvolta messa da parte per far si che possa emergere l’ego dell’allenatore, e credo che tutto dipenda da quanto il singolo sia messo in grado di esprimere al meglio le sue qualità in relazione alle funzioni che ha. L’ho sempre pensato e continuerò a farlo fino a che calcio e futsal verranno definiti come giochi.

Oltre all’aspetto individuale, che peso specifico hanno le relazioni e il trasferimento di concetti tattici – non necessariamente strategici – utili a comprendere e “risolvere” situazioni?
Certamente, anche questi aspetti sono fondamentali. Al primo allenamento con la nazionale, ho detto ai giocatori che io per loro non avrei potuto essere né un allenatore, mancandomi la quotidianità del lavoro, né un motivatore, perché per motivare le loro azioni è per me sufficiente lo scudo che portano sul petto quando indossano la maglia azzurra. Ciò che invece avrei potuto e voluto essere per loro era un facilitatore. Credo che un allenatore debba essere questo, un facilitatore di relazioni dentro al campo, attraverso le quali i propri giocatori possano esprimersi al massimo delle proprie qualità.
Nella pratica, come si traduce il fatto di essere un facilitatore di relazione?
Attraverso l’identificazione del giocatore e la creazione di contesti.
Non c'è modo di creare relazioni senza che il gioco sia la base di tutto.
Bisogna saper osservare i propri calciatori, le loro qualità, i loro comportamenti e successivamente creare impianti di gioco adeguati ad essi. Se ho un giocatore di grande talento che ama partire dall’esterno per poi andare a ricevere fra le linee centralmente, dovrò creare un contesto in cui questo tipo di movimento possa essere una soluzione di sviluppo della manovra. Quando un allenatore rimane ancorato ai suoi principi e al suo modo di giocare, senza tenere in considerazione quelli che sono i veri attori del gioco è inevitabile che il rischio di “giocare male” diventi più elevato.
Non si tratta di allenare relazioni, ma di crearne di nuove e rafforzarne di vecchie, modificare e migliorarne altre ancora. Ed è solo il gioco che permette alla relazione di essere creata, rafforzata o migliorata.

Qual è il tuo rapporto con l’errore?
E’ molto semplice, semplicemente non lo considero e non lo sottolineo.
Non vedo all'errore come tale, ma come una possibilità di offrire alternative.
Nelle poche sedute video che svolgiamo diamo solo rinforzi positivi, mai negativi. Ho sempre pensato che il supporto video sia utile solamente in campo perché per me non c’è modo di avere l’attenzione massimale di un giocatore davanti ad un video e soprattutto non è possibile tradurre il sistema attivato, quello visivo, in sistema motorio.
Quello che cerchiamo di fare è proporre in allenamento situazioni simili a quelle in cui c’è stato un errore in gara, affinché il giocatore possa vivere più esperienze possibili di quel tipo. Non facciamo altro che offrire alternative. In questo modo il giocatore non vive l’esperienza come negativa e non si sentirà condizionato nei suoi comportamenti.
Se da allenatore sottolineassi ogni volta in cui i miei giocatori sbagliano, loro giocherebbero solo per evitare l’errore. Allo stesso modo, allenare per non commettere l’errore è a mio avviso qualcosa di ancor più negativo. Il giocatore dovrebbe allenarsi per migliorare la sua scelta all’interno di alternative in un determinato contesto.
L’aspetto emotivo della partita può però incidere negativamente anche sull’allenatore. Penso soprattutto all’aspetto della comunicazione verbale e non: toni più duri, rimproveri, smorfie di disappunto, sconforto evidente…
Certamente il modo di relazionarsi da parte dell’allenatore con l’errore non sarà sempre perfetto. Il loop della competizione può portare, a volte, a sottolineare l’errore e modificare leggermente l’orientamento del mister, ma a questo proposito penso sia doveroso fare una precisazione: farsi fuorviare dall’aspetto emotivo è qualcosa che posso comprendere, pur non condividendolo, in un contesto di alto rendimento. Il rischio però è che questo comportamento venga riportato in un contesto differente come quello formativo, dove purtroppo troppo spesso si agisce per emulazione. Qui l’errore deve ancor più essere parte integrante del quotidiano e, in quanto tale, accettato e vissuto serenamente.
In che modo un allenatore può formarsi oltre ai corsi di formazione indetti dalla federazione? In altri termini, come si allena nel quotidiano un allenatore?
Tanti allenatori, troppo spesso, impiegano molto del loro tempo a cercare di carpire dai colleghi chissà quali segreti tecnico tattici, ma questo è una maniera di relazionarsi che mostra estrema pochezza nell’espletare le funzioni da allenatore, soprattutto se poi quando si discorrono altri temi come la metodologia di allenamento, la pedagogia o la complessità del gioco quasi non si sa nemmeno di cosa si stia parlando.
Bisognerebbe avere un approccio multidisciplinare al ruolo, formarsi guardando e confrontandosi con allenatori di altri sport, interessarsi di teoria dell’apprendimento, ascoltare pensatori… Esistono moltissimi modi per formarsi come allenatori e come uomini. Ad ora, l’unico allenamento riconosciuto sembra quello di frequentare il corso che abilita al ruolo, ma questo è un modo di pensare terribile per me. Io ho iniziato ad allenarmi dopo aver ottenuto la tessera di allenatore, e continuo a farlo quotidianamente.
Nel tuo percorso come allenatore hai avuto modo di osservare da vicino le modalità di formazione diverse federazioni estere in qualità di ospite di convention o come docente di masterclass internazionali. Hai notato differenze oltreconfine per quanto riguarda l’aspetto formativo dei tecnici?
Si, ma senza andare fuori confine, le differenze ci sono anche nel modo in cui i corsi di formazione vengono strutturati nelle differenti discipline. Nel basket, per esempio, non esistono esami finali da sostenere per essere abilitati come allenatore, ma test di ingresso per poter frequentare il corso. Il concetto alla base è molto semplice: non si impara a fare gli allenatori nel corso. Inoltre, per essere abilitati al ruolo di capo allenatore è necessario, dopo aver frequentato il corso, svolgere una sorta di periodo di formazione pratica che prevede, fra le altre cose, dover arbitrare almeno 30 partite di settore giovanile e affiancare per un determinato numero di ore un tecnico abilitato.
In Portogallo, la nazionale bicampione d’Europa e campione del Mondo, i tecnici vengono formati alla stessa maniera: i loro corsi non prevedono lo svolgimento di nessun esame, ma al termine del periodo di formazione i tecnici devono effettuare un periodo di tutoraggio della durata di 10-12 mesi ad un allenatore in possesso di licenza superiore.
Quali sono i vantaggi nello svolgere un periodo di formazione in qualità di assistente?
Lo svolgimento del periodo di tutoraggio in realtà non ha come finalità quella di apprendere direttamente dall’allenatore capo come trasferire le proprie conoscenze, non è così che funziona. Ciò che accade, è che nel ruolo di assistente si ha la possibilità di vivere determinate situazioni o dinamiche da una visuale più distaccata, con la possibilità di guardare come l’allenatore le gestisce e, soprattutto, di osservare i feedback che riceve dai giocatori. L’assistente sarà dunque in grado di elaborare un pensiero proprio su quelle che sono le conseguenze di un determinato modo di relazionarsi e di trasferire le proprie conoscenze. E’ questa la vera positività del periodo di affiancamento, sia esso inteso come tutoraggio in fase formativa per l’abilitazione al ruolo o come mansione di vice allenatore o collaboratore e credo che sia una tappa utilissima per la crescita di ogni allenatore. E questo lo dimostrano anche i grandi: basti pensare a Ettore Messina e Gianmarco Pozzecco, ex ed attuale coach della nazionale italiana di basket. Il primo nel mezzo di una carriera da top allenatore ha avuto l’umiltà di accettare il ruolo di assistente di Greg Popovich (uno dei migliori allenatori NBA della storia) ai San Antonio Spurs, Pozzecco ha ricoperto lo stesso ruolo sia in Croazia, nei suoi primi anni da allenatore, che, più recentemente, a Milano con lo stesso Ettore Messina come head coach.