L’errore più grande che si possa fare pensando a Diego Armando Maradona jr sarebbe quello di pensare ad una persona il cui nome sulla carta d’identità gli abbia spianato la strada verso il il raggiungimento dei suoi obiettivi personali, tenendo parziale conto di quelle che sono le sue reali qualità lavorative. La chiacchierata insieme, al contrario, mi ha restituito l’impressione di una persona determinata, lucida nell’analisi, estremamente attenta alla scelta delle parole per non correre il rischio di venire travisato nei concetti e che il suo messaggi arrivi ai destinatari in maniera distorta. Un uomo magari introverso, come si autodefinisce, ma estremamente umile e, al tempo stesso, determinato.
Diego Armando Maradona Jr quando ancora la sua carriera da calciatore doveva volgere al termine, iniziando dal settore giovanile del San Giorgio, per poi proseguire con i giovani del Real Casarea, uno dei settori giovanili d’èlite del napoletano. Dal 2021 è alla guida della Prima Squadra del Napoli United, nel campionato d’Eccellenza campano, con la quale al primo colpo ha sfiorato la promozione nella quarta serie nazionale, un traguardo che sta ancora rincorrendo nell’attuale stagione sportiva 2022/23.
Come nasce il Diego allenatore? Con quali esperienze e quale formazione?
Il Diego allenatore nasce insieme al Diego calciatore. Da giocatore non ho fatto tantissimo, il massimo a cui sono arrivato è stata la Lega Pro, ma fin da molto giovane sono sempre stato molto incuriosito dal perchè i miei allenatori mi chiedevano di fare certe cose. Quella che all’inizio era solo una curiosità è diventata poi, verso la fine della mia carriera, una vera e propria ossessione.
Per questa ragione, quando mi ruppi il crociato, a 27 anni, decisi di frequentare il corso per allenatore e iniziare così il mio percorso di formazione.
Al termine del corso UEFA B ebbi poi la grande fortuna che Maurizio Sarri, l’allora allenatore del Napoli, mi prese sotto la sua ala protettrice. In quel periodo mi recavo sempre a Castelvolturno per osservarne gli allenamenti e da lì è nata un’amicizia che mi ha segnato oltre che da un punto di vista umano, anche dal lato professionale, grazie all’influenza che le sue idee hanno avuto su di me, seppur alcuni miei principi metodologici siano molto distanti dai suoi.
Qual è la tua idea di calcio?
La mia idea nasce, come ti dicevo, dalle sensazioni che avevo quando giocavo. Io ero un trequarti e ho vissuto quel periodo dell’evoluzione del calcio in cui il trequartista veniva spesso sacrificato o sull’esterno o davanti alla difesa. Avendo buone qualità tecnica e una discreta visione di gioco spostarono spesso nel ruolo di play. Che successe in quel periodo? Che iniziai ad odiare i difensori che buttavano via la palla, lanciandola sistematicamente ed innescando quel ping pong di seconde palle, perchè in quel modo io non la prendevo mai.
Sono ossessionato dalle costruzioni basse e dall’avere quell’ordine in tutte le zone di campo che ti permetta di comandare tutte le partite, dove per comandare non intendo nulla che abbia a che fare con il risultato, ma solo aspetti relazionati al gioco.
Un altro principio che caratterizza la mia idea di calcio è relativo all’ampiezza, di cui non sono un grande estimatore. Mi spiego meglio. Ho sempre pensato che i giocatori migliori non abbiano bisogno di pestare la linea laterale, ma che siano perfettamente in grado di gestire le situazione di densità nelle zone centrali del campo. Per questo preferisco che l’ampiezza venga presa prevalentemente dai terzini o, talvolta, dagli attaccanti, limitando il più possibile gli interscambi fra i giocatori. Questo giocare prevalentemente di posizione è un aspetto che caratterizza molto le mie squadre, ma che, non nascondo, talvolta ci ha reso troppo prevedibili agli avversari.
Puoi identificare alcuni principi metodologici operativi all’interno dei tuoi allenamenti?
Il primo è sicuramente quello di non imporre mai un limite di tocchi durante le mie esercitazioni.
Trovo che il limite dei tocchi sia un'imposizione del tutto inutile. Si vanno a forzare in maniera determinante i tempi del gioco, e non sempre in maniera corretta. Perchè dovrei effettuare una giocata di prima quando, per il gioco, ne occorrerebbero tre, per esempio? Con il limite dei tocchi cambia il mondo: il tempo non è uguale, la fluidità del possesso non è uguale.
Io gioco sulla fluidità del possesso e sull’educazione al possesso, per questo credo che sia una forzatura inutile.
Un altro aspetto tipico del mio modo di allenare è quello di non porre mai limiti all’interpretazione dei giocatori. Quando proviamo un aspetto tattico, che sia una costruzione dal basso piuttosto che una costruzione media o un’esercitazione di fase difensiva, lascio sempre i primi due o tre sviluppi liberi, senza correggere, ma solo limitandomi ad osservare. Sono convinto che io debba allenare anche il giocatore affinchè sia in grado di scegliere perchè alla domenica l’avversario non ci viene a dire prima di giocare come ci verrà a pressare.
In ultimo, non amo le sedute particolarmente lunghe: preferisco che i miei allenamenti siano di minor durata, intorno all’ora e un quarto, ma caratterizzati da grande intensità.

L’aspetto relativo all’interpretazione del giocatore è un principio tipico degli istruttori di settore giovanile. Credi che invece, a livello di Prima Squadra, un calciatore evoluto necessiti sempre di questo ampio grado di libertà di interpretazione o, al contrario, ci sono situazioni in cui preferirebbe essere più guidato?
A me non piace guidare troppo i miei giocatori in un ambiente troppo “meccanicizzato” per un motivo molto semplice: che quando i tuoi avversari ti prendono le contromosse tu a quel punto non hai più armi per uscirne. Preferisco molto di più fornire ai miei giocatori gli strumenti per risolvere le situazioni che il gioco gli mette di fronte.
Detto questo io non amo fare questa distinzione fra settore giovanile e prima squadra. Sicuramente l’approccio è diverso, ma alla fine l’espressione del proprio pensiero e della propria voglia di calcio sono le stesse. Per questo io non denoto tutta questa grande differenza fra allenatori.
Qual è l’aspetto del tuo lavoro che ti affascina maggiormente?
A me piace tutto del mio lavoro e amo lavorare a stretto contatto con i membri del mio staff. Cerco di curare ogni aspetto, ma non mi reputo un allenatore convenzionale. Per esempio, non amo riguardare le partite giocate a video, perchè in precedenza, quando mi capitava di farlo, notavo che perdevo una delle cose per me fondamentali, e cioè la sensazione del campo, il gusto di calcio che ci attrae.
Amo la parte di campo e la conduzione degli allenamenti, ma delego la parte della preparazione della seduta al mio secondo, chiaramente concordando insieme gli obiettivi generali.
Con il mio match analyst lo scambio di dati è quotidiano. Voglio che sia ripreso ogni singolo allenamento e ogni pomeriggio – noi ci alleniamo al mattino – ricevo da parte sua il report di ogni allenamento, oltre che quello sugli avversari che andremo ad affrontare, chiaramente.
Lo stesso vale per il preparatore dei portieri. Avendo un ruolo fondamentale nelle mie squadre, hanno una percentuale di coinvolgimento molto elevata all’interno di ogni singola seduta, pertanto penso sia assolutamente necessario che lo scambio di idee e opinioni anche con lui.
Non entro mai invece nelle dinamiche di lavoro del preparatore atletico.
Qual è l’idea di gioco concreta che hai voluto proporre al Napoli United? Oltre al dominio e alla sottofase della costruzione dal basso di cui hai già parlato, c’è qualche altro pilastro nei tuoi principi nella fase di non possesso?
Sicuramente in fase di non possesso il calcio di oggi non ti consente di andare piano, però è necessario fare una precisione, perchè a mio parere si viene a creare sempre un pò di confusione nell’interpretazione di questo aspetto. Andare forte nella fase di non possesso è diverso dall’andare uomo contro uomo. Spesso invece le due cose vengono erroneamente accostate.
A me difendere uomo contro uomo non fa impazzire. Se trovi una squadra che ha concetti di attacco spazio o proprietà di palleggio corto ti fanno malissimo. Io preferisco molto di più uscire forte sui riferimenti prestabiliti all’interno di una difesa a zona.

Hai avuto difficoltà nel trasmettere le tue idee di calcio in un contesto non professionistico? Immagino che tu debba tenere in considerazioni moltissime dinamiche, alcune delle quali neanche prettamente calcistiche.
Non è stato semplice, ma sono stato fortunato perchè ho trovato un gruppo di ragazzi disponibile, che crede in ciò che fa e che crede nella maniera in cui vogliamo arrivare al risultato.
Questo però è un aspetto che, a mio modo di vedere, ha molto a che fare con la comunicazione dell’allenamento e la qualità del proprio messaggio e del suo modo di trasferirlo. In che modo un allenatore può risultare così credibile agli occhi del suo gruppo?
Non te lo dico per una questione di eccesso di umiltà ma io credo che noi possiamo incidere solo se c’è il “benestare” dei ragazzi. Secondo me la cosa fondamentale per essere credibile è essere sè stessi, non imitare lo stereotipo di un allenatore tipo.
Io cerco di far pesare ai calciatori il fatto che io sia l'allenatore soltanto quando devo.
Mi piace mettermi sullo stesso piano dei miei giocatori, condividendo anche aspetti del mio ruolo come la preparazione del piano di una gara, perchè poi alla fine sono loro che poi dovranno interpretarlo in campo, e quindi per me è fondamentale che loro si sentano coinvolti al punto da sentirsi partecipi nelle creazione delle strategie di gioco. Poi ovviamente le decisioni finali spettano sempre a me, è normale, fa parte del mio ruolo.
Non credo esistano più quelle dinamiche da allenatore autoritario tipiche di quando giocavo io. Per me la condivisione è fondamentale.

Si possono avere tutte le idee tecniche e tattiche migliori del mondo, ma senza una comunicazione adeguata ed un rapporto empatico con i propri giocatori il messaggio va perso…
C’è una cosa che dico sempre ai miei giocatori durante il discorso che faccio solitamente il primo giorno di allenamento dell’anno. “Il mio rispetto non passa nel farvi giocare di più o di meno, ma passa nel non trattarvi da un punto di vista umano alla stessa maniera, perchè non siete tutti uguali.”
Noi tutti siamo stati cresciuti calcisticamente sentendoci dire “siete tutti uguali”. Una grandissima falsità. Chi gioca 35 partite non può essere uguale a chi ne gioca 5. Il calcio è una selezione naturale. Non lo sono da un punto di vista tecnico e non lo possono essere nemmeno da un punto di vista umano.
Perchè dovrei negare ad un ragazzo che ne ha bisogno due parole in più soltanto per trattarlo alla stessa maniera degli altri?

E’ possibile – e quanto è difficile – essere professionisti nei dilettanti?
E’ assolutamente possibile e per niente difficile esserlo anche nei dilettanti.
Io rispetto il mio lavoro e lo svolgo in maniera identica sia fra i dilettanti che fra i professionisti.
Quel che cambia sono gli strumenti che si hanno a disposizione. Io nella vita ho imparato a rispettare tutto ciò che faccio e per me il Napoli United è il Real Madrid. Vado sempre a vedere la nostra squadra Juniores al sabato, perchè fa parte del mio lavoro, mi informo e cerco di essere sempre coinvolto in tutte le dinamiche che mi competono.
Qual è l’obiettivo per la quale lavori ogni giorno? Dove ti vedi fra qualche anno?
Sarò dove i miei giocatori mi porteranno. C’è una frase di Fernando Gago che io operativamente ho fatto mia. “La sconfitta è dell’allenatore, le vittorie dei giocatori.” Una grande verità. Io sarò dove loro mi porteranno perchè è grazie a loro che si può giudicare la bontà o meno del mio lavoro, e non per i risultati. E questo non lo dico perchè non ho vinto lo scorso anno e molto probabilmente non vincerò nemmeno quest’anno.
Spero che un giorno mi possano portare sulla panchina del Napoli.
Hai mai pensato ad un percorso anche in altri Paesi?
Assolutamente si, sono apertissimo ad un percorso in altri Paesi. Non so dove mi porterà il futuro ma so per certo che qualunque sia la mia prossima esperienza lavorativa io mi sento un allenatore, non mi sento adatto nello svolgere un ruolo da collaboratore. Non è un atto di presunzione, è una semplice presa di coscienza rispetto ad un qualcosa in cui non mi sento idoneo.
Un’ultima domanda. Lo scorso anno hai dedicato un post sui tuoi social alla tua squadra dopo la sconfitta ai playoff per la promozione in Serie D. Parole molto belle che mi hanno fatto venire in mente un episodio visibile nella bellissima serie “Maradona in Messico” quando tuo padre, dopo aver assunto la guida del Sinaloa, in quel momento ultimo in classifica, portò la squadra a giocarsi la finale per la promozione nella massima serie messicana, perdendola, e negli spogliatoi nel ringraziare i suoi giocatori si emozionò al punto di piangere di fronte a loro. Come è stata, in quei momenti, la tua gestione della sconfitta?
Questo parallelismo mi riempie di orgoglio. Se nelle mie parole hai trovato una similitudine in quello che fece mio padre per me è un complimento enorme, perchè lui aveva una grande empatia nei confronti dei propri compagni o dei propri giocatori.
Ricordo che vidi i miei giocatori piangere negli spogliatoi, ma dissi loro di alzare la testa perchè quella partita in particolare la persero solo ed esclusivamente per fattori esterni alle loro capacità. Ci furono decisioni arbitrali decisamente clamorose a nostro danno, ma ricordai loro che purtroppo quella non sarebbe stata la loro ultima sconfitta, e dissi che se avessi dovuto perdere di nuovo in futuro, avrei voluto farlo proprio come avevano fatto loro quel giorno.
Lo scorso fu un anno molto particolare. Ho iniziato questa esperienza da ragazzo raccomandato per la maggior parte dell’opinione pubblica, che prendeva una squadra forte da quasi inesperto e ho dovuto dimostrare ogni giorno di essere all’altezza.
Può non sembrare così, ma nella mia vita sono sempre stato abituato a guadagnarmi e meritarmi ogni cosa, e se c’è una cosa di cui sono fiero è proprio quella di aver trasmesso al mio gruppo questi valori, che loro riflettono in campo ogni domenica.