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Il grande equivoco della tecnica “individuale”

Dall’antica Grecia ad oggi, la tecnica non ha mai messo d’accordo nessuno…

Svolgendo qualche di ricerche su internet ho appreso che il concetto greco di tecnica (téchne) è molto antico e in origine veniva usato per indicare una prerogativa degli dèi di cui è stato fatto dono agli uomini per sopperire alla loro intrinseca debolezza. Con il passare del tempo, la divisione del lavoro e la nascita di nuovi mestieri all’interno delle comunità, la tecnica passò da prerogativa divina ad invenzione umana.

Le technai iniziarono così ad avere una propria autonomia, e tra esse spiccano per importanza l’aritmetica, la geometria e la medicina. Proprio quest’ultima fornirà il più interessante modello teorico di metodo (hodós), in cui ogni nuova scoperta utile tiene conto delle precedenti, a cui è legata e dalle quali è resa possibile. Essa inoltre restringe il proprio campo all’osservazione, e riconosce l’importanza della correggibilità della tecnica, quale mezzo per poter distinguere tra corretto e scorretto. In altre parole tutti quei comportamenti che si attenevano alla tecnica conosciuta e riconosciuta corretta in funzione di comportamenti precedentemente osservati venivano considerati corretti, mentre tutti quelli che si discostavano ad essi rientravano nel campo dell’errore.

Non mancarono tuttavia posizioni contrarie e ostili alle technai. Tra esse spiccò la scuola eleatica, secondo la quale esse negavano l’unità e l’omogeneità dell’essere. 

Insomma, fin dall’antichità il concetto di tecnica non è riuscito a mettere d’accordo neppure i tanto razionali filosofi del tempo nei campi scientifici della matematica, della geometria e della medicina, figurarsi in quello attuale in un ambiente, quello del calcio, dove qualsiasi cosa diventa opinabile. 

Fra i tanti dibattiti a sfondo calcistico che vengono ciclicamente sollevati, permane infatti quello relativo all’importanza della tecnica individuale e al metodo di insegnamento dei fondamentali che dovrebbero essere alla base delle scuole calcio. 

Il video qui sopra di Fabio Capello rappresenta solo uno dei tanti interventi a gamba tesa sul tema, quasi sempre tutti riassumibili con il concetto di “troppa tattica e poca tecnica”. Il perchè di questa asimmetria sarebbe riconducibile, sempre secondo i fautori del Capello pensiero, al fatto che oggi non si saprebbe più insegnare la tecnica ai ragazzi. 

Possibile dunque che l’evoluzione del calcio abbia portato i suoi addetti ai lavori, soprattutto quelli che rappresentano la base della piramide formativa, gli istruttori dei settori giovanile, così tanto fuori strada da renderli incapaci all’atto di correggere un gesto tecnico? In che modo e quali competenze sono necessarie per poter correggere un gesto tecnico? Ma soprattutto, assumendo per assodate le motivazioni fornite da mister Capello, quali sono i parametri di valutazione che contraddistinguono i gesti tecnici al punto da poterne stabilire buona o cattiva esecuzione?

La tecnica ha senso, se applicata

"La tecnica non è essere in grado di palleggiare una palla 1000 volte. Chiunque può farlo esercitandosi. La tecnica è passare la palla con un solo tocco, con la giusta velocità, sul piede corretto del compagno di squadra".

Questa mai passata di moda frase di Johan Crujff pone, a mio avviso, un’importante prima riflessione da dover fare, nell’addentrarsi in questo groviglio che è l’approccio metodologico sul tema in questione.

Il calcio è per sua natura un sistema dinamico e complesso, frutto dell’integrazione di diversi elementi che si influenzano costantemente e reciprocamente fra loro attraverso una continua serie di relazioni. Va da se che in un contesto in cui la variabilità ambientale è così elevata al punto da non rendere una situazione mai perfettamente identica alle precedente, anche il comportamento dei giocatori non potrà essere essere, di conseguenza, sempre lineare da un punto di vista tecnico. Compagni, avversari, zone di campo, situazioni di gioco, rappresentano variabili – mai perfettamente uguali in ciascun momento del gioco – che influenzano in maniera determinante i comportamenti in campo dei giocatori, e in particolari i gesti tecnici necessari per ovviare alla situazione, modificandone meccanica e, talvolta, anche stravolgendo completamente la gestualità. 

Si tratta di un contesto situazionale e mutevole che, in quanto tale, è caratterizzato da tecniche di esecuzione definite open skills, vale a dire quelle gestualità che per la natura “caotica” del gioco in cui vengono applicate non potranno mai essere standardizzate al punto da essere riproducibili sempre nella stessa maniera secondo canoni prestabiliti.

Fatte queste premesse, come è possibile stabilire quale sia una buona o una cattiva gestualità tecnica? Qual è il limite fra corretta esecuzione e funzionalità all’obiettivo? 

Prendiamo ad esempio, la tecnica di tiro di Ozil, visibile nel video qui sotto. Seppur chiaramente in controtendenza rispetto ai classici canoni della meccanica del fondamentale del tiro, come si può dire che essa sia tecnicamente sbagliata

Quanto appena descritto rappresenta l’esatto contrario di altre discipline, prettamente individuali – la ginnastica o i tuffi per esempio – in cui la tecnica è chiusa, nel senso che la gestualità è sempre la medesima e meglio sarà eseguita dall’atleta che la mette in pratica più egli si potrà definire tecnicamente perfetto.

Tutti d’accordo? In generale si, ma è proprio da qui che nascono i problemi interpretativi sul tema della tecnica e sul suo metodo di allenamento. Siamo sicuri che il messaggio che trasferiamo ai nostri giocatori sia questo? O ogni volta che il giocatore commette uno sbaglio, il perchè dell’errore, lo andiamo a ricercare nei famosi parametri della tecnica perfetta che in quella determinata situazione non sono stati applicati?

Julio Velasco, illuminato allenatore di volley, attualmente direttore tecnico del settore giovanile della FIPAV, afferma che a tal proposito spesso si vengono a creare due differenti linguaggi: uno degli allenatori ed uno dei giocatori, paralleli, ma che molto spesso rimangono tali, senza mai incontrarsi. Il motivo di tale distanza è riconducibile al fatto che le correzioni solitamente fornite ai giocatori non terrebbero conto nè del punto di vista dei giocatori stessi, nè della situazione circostante a quella in cui la risposta motoria è avvenuta.

“Prendiamo l’esempio di una ricezione sbagliata a causa di un ritardo del giocatore nell’andare sulla palla” chiarisce Velasco. “Spesso ciò che accade è che l’allenatore dica al suo giocatore di non arrivare in ritardo, ma di trovarsi già dietro alla palla, come i canoni della ricezione corretta prevedono. Peccato che però l’avversario si alleni tutti i giorni affinchè gli altri possano non arrivare in tempo sulla palla.”

Un esempio tanto banale quanto pratico che porta ad un riflessione che impone una nuova, seconda, riflessione da dover fare. Cosa viene applicato dunque dal giocatore durante il gioco? 

La controversia della tecnica “individuale”

Risposta immediata: la tecnica individuale, alla cui base ci sono i fondamentali, che devono sicuramente essere spiegati durante l’insegnamento dell’esecuzione del gesto, ma i quali poi dovranno essere sviluppati, appunto, come tecniche individuali.

Osservando campioni di elite di differenti sport, è infatti facile osservare come non esistano comportamenti corretti in assoluto, e questo è dovuto – come già illustrato precedentemente – alla natura caotica, complessa e mai uguale del gioco, e agli adattamenti che essi sono riusciti a trovare durante la crescita per aumentarne l’efficacia. Un esempio su tutti, anche se non legato al calcio, è la tecnica di tiro di Stephen Curry, cestista americano e guardia dei Golden State Warriors e miglior tiratore da tre punti della storia dell’NBA.

Anche il basket ha i suoi canoni di “tecnica perfetta” e, manco a dirlo, il tiro di Curry con questi canoni non ha niente a che vedere. Non essendo particolarmente alto (188 cm) ha infatti dovuto adattarne la meccanica per non venire costantemente stoppato dagli avversari, passando dal tipico rilascio all’apice del salto ad un rilascio in tempo brevissimi – 0.3 secondi, per la precisione – quando ancora si trova in piena fase di ascensione. Si tratta di un tiro di molta più difficile esecuzione ma che Curry ha portato allo stato dell’arte dal punto di vista dell’efficienza, rendendolo praticamente immarcabile a qualsiasi difensore della lega.

L’essere umano si muove, migliora e si esalta solo ricercando un obiettivo e non ricreando ipotetici pattern motori ideali. Voler installare a tutti i costi una serie di comportamenti predeterminati anzichè impostare un lavoro sulla sensibilità delle percezioni e sulla possibilità di azione attraverso l’esperienza attiva sarebbe un errore troppo grande da commettere in fase di formazione.

Esiste un altro grande esempio di giocatore di massimo livello che ha fatto di una sua tecnica imperfetta uno dei suoi punti di forza: Paolo Maldini, uno dei difensori più forti di tutti i tempi, affrontava i duelli difensivi ruotando il suo corpo in maniera tale da perdere di vista la palla per qualche istante. Un intervento, secondo i canoni del manuale tecnico, disfunzionale e da correggere. 

Il problema è che “non siamo tutti uguali e a volte far capire a chi è troppo integralista che io posso eseguire un’azione in un’altra maniera, o forse meglio, di come me la stanno insegnando, è difficile. Certo che non puoi basare la tua difesa solamente su queste capacità, però se uno ce le ha…” (cit. Maldini)

Insomma, la chiamiamo tecnica individuale e in quanto tale non possiamo pretendere che venga eseguita da tutti allo stesso identico modo. Bisognerebbe, invece, rispettare la natura del gioco e dare la possibilità, a chi si immerge in esso, di trovare le proprie soluzioni ai problemi, attraverso l’esperienza dei problemi stessi e non allenare il giocatore a compiere esercizi credendo che il transfer al gioco sia semplice, perchè semplice, purtroppo, non lo è.

Quindi, quali conclusioni? 

In definitiva

– la tecnica analitica è inutile? No, nessuno ha mai detto questo. Ci sono situazioni che nel gioco si ripetono molto di rado e pertanto, per allenarle è necessario riproporre contesti in cui la ripetizione del gesto sia elevata, anche in forma più analitica 

– essendo che nel gioco si applica la tecnica applicata, conoscere i fondamentali della meccanica perfetta diventa inutile e suggerirli può risultare addirittura “controproducente” (si veda l’esempio di Stephen Curry)? Assolutamente no, conoscere la corretta meccanica è fondamentale così come è doveroso insegnarla e mostrarla ai giovani atleti, i quali non dovranno però essere “ingabbiati” in rigidi vincoli dettati dal gesto convenzionale. Un bravo istruttore di scuola calcio dovrà essere in grado di osservare i comportamenti emergenti cercando di cogliere e scindere errori tecnici da tentativi di interpretazione e adattamento del gesto.

– un gesto tecnico non corretto ma funzionale è catalogabile come errore? Per me, assolutamente no. Ogni gesto è finalizzato ad una sua funzionalità, e qualunque tipo di gesto funzionale non può ritenersi erroneo, seppur non rientri nei canoni della meccanica ideale.