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Approccio sistemico nel settore giovanile: intervista a Filippo Galli

5 volte campione d’Italia, 4 Supercoppe italiane, 3 Champions League, 3 Supercoppe UEFA, 2 Coppe Intercontinentali, per un totale di 17 titoli.

Bandiera del Grande Milan che dominò il calcio europeo a cavallo degli anni ’80 e ’90, Filippo Galli ha prima intrapreso la carriera da allenatore, alla guida della Primavera e poi come vice di Ancelotti in Prima Squadra, e, smessi i panni di tecnico, è ora uno dei dirigenti sportivi più apprezzati nel panorama italiano, soprattutto a livello giovanile.

Durante i suoi 9 anni da responsabile del vivaio rossonero sono stati forniti alla Prima Squadra elementi come Donnarumma, Locatelli, Calabria, Cutrone e Gabbia, oggi tutti in Serie A, oltre ad aver arricchito la bacheca societaria con una Coppa Italia Primavera, un torneo di Viareggio, un campionato Allievi, un campionato Giovanissimi e uno con l’Under 16.

Oggi Galli fornisce il suo prezioso contributo al Settore Tecnico della FIGC, con un ruolo legato allo sviluppo del calcio giovanile nel nostro Paese.

Mister, sembra che l’attività di base nel calcio attuale abbia perso la sua funzione formativa…

Guardando il calcio nazionale rispetto alla formazione in attività di base quello che andrebbe migliorato è la mentalità degli allenatori di quella fascia d’età che ancora adesso è ancora troppo fissata sull’idea che il miglioramento dei bambini debba avvenire attraverso un lavoro individuale.

Troppo spesso associamo il bambino al concetto di egoismo, pensando dunque che la collaborazione sia una nozione impossibile da sviluppare, quando invece studi recenti hanno dimostrato che la collaborazione inizia in loro già a partire dai 3 anni.

Nonostante i messaggi che ci arrivano dai mezzi di informazione, che spesso esaltano le individualità, bisogna ricordarsi che il calcio è uno sport di squadra e affinché si possano crescere giocatori in grado di esaltarsi attraverso le loro caratteristiche nel collettivo, è necessario lavorare fin da subito con questa idea di collaborazione. Il collettivo aiuta l’apprendimento del giocatore.

Spesso parliamo di allenare il duello 1 contro 1 perché non siamo più in grado di produrre giocatori di alto livello in grado di saltare l’uomo, ma dobbiamo trattare l’argomento con cura particolare perché nelle fasce d’età più piccole, dai 5 ai 7 anni, l’eccessiva competitività blocca i processi di apprendimento.

Quello che succede spesso in questo casi infatti è che il giocatore in grado di risolvere questo tipo di situazioni acquisisce un ego troppo elevato e non riesce più a scoprire l’importanza della risorsa del compagno.

Non sto dicendo con questo che non sostengo il valore dell'individualità, tutt'altro. Dobbiamo imparare però a riconoscerlo all'interno del gruppo, cercando quindi di creare delle unità di lavoro dove le situazioni di gioco prevedano come minimo 3 giocatori, lasciando libertà di scelta al giocatore fra l'affrontare il duello con un dribbling o tramite l'aiuto del compagno e andandoli ad aiutare nella comprensione di quando è più vantaggiosa una scelta piuttosto che un'altra. La tendenza in queste fasce d'età è sempre quella di dare priorità al ball mastering, avendo un rapporto pallone-bambino di 1:1, ma dal punto di vista dell'apprendimento, ritengo che sia una scelta che vale davvero poco.

A proposito di ciò, ricordo che in una sua intervista lei disse che l’aspetto più importante degli allenatori è quella di individuare le potenzialità del bambino e le sue capacità di relazionarsi con gli altri da un punto di vista calcistico. Come emergono questo tipo di relazioni?

E’ sempre il Gioco che fornisce le risposte. Quando un bambino è particolarmente bravo lo noti perché accentra molto il gioco, o perché lui vuole spesso la palla o perché sono i compagni, riconoscendo il lui qualità differenti, a passargliela.

Nel momento in cui il bambino sviluppa questa capacità di relazione, per quella che è la mia esperienza acquisita, ritengo che questa sia una caratteristica predittiva di un certo tipo di sviluppo del giocatore.

E’ sempre poi molto difficile prevedere che un bambino di quell’età potrà avere un sicuro avvenire nei professionisti, perché ormai il talento non è solo un aspetto genetico ma è generato ed edotto dall’ambiente esterno.

Mister Galli, in un frame della video intervista
Secondo alcuni studi ormai in molti sono d’accordo nell’affermare che quando si parla di formazione del giovane calciatore bisognerebbe avere una visione olistica, senza quindi scindere ed allenare le singole parti che compongono un atleta nella sua interezza. Questo discorso non viene però mai relazionato agli istruttori, che troppo spesso nella loro formazione si occupano di sapere solo di questioni tecnico tattiche, ignorando però tutte le altre componenti…

Assolutamente vero.

Permettimi però di fare un piccolo appunto. Nella tua domanda hai utilizzato il termine “istruttori” e a me personalmente non piace molto perché riporta al concetto di addestramento, per cui chi riceve nozioni è obbligato ad eseguire.

Personalmente utilizzo sempre la parola “allenatore” indipendentemente dal fatto che stia parlando di categorie di bambini o di adulti.

Detto questo, sono assolutamente d’accordo che ogni allenatore debba avere una conoscenza multidisciplinare perché, a differenza di come ogni tanto sento dire anche da professionisti, il calcio non è semplice.

“Il calcio è semplice” lo può dire solo chi conosce il calcio, altrimenti il messaggio che passa è che chiunque possa allenare, quando invece per allenare, soprattutto fra i piccoli, bisogna avere enormi competenze. Bisogna sapere come funziona l'apprendimento di un bambino, conoscere aspetti pedagogici, psicologici… Deve avere competenze trasversali e non solo tecnico tattiche, dove per tattiche io intendo sempre la scelta.

Io vado ancora oltre poi. Questo discorso vale per i giocatori, per l’allenatore ma anche per lo staff nella sua interezza, che deve amalgamarsi e lavorare in maniera integrata.

Quando l’allenatore propone un’esercitazione è normale che l’aspetto tecnico tattico sia alla base di tutto, perché crescere sotto questo punto di vista è il motivo per cui i nostri bambini si iscrivono alle scuole calcio, ma per tutti gli altri aspetti, quello coordinativo o condizionale per esempio, è necessario che l’allenatore si confronti durante la preparazione dello stesso con il suo preparatore, facendo un passo indietro e lasciandogli in quel momento il ruolo di leader della discussione.

Questo discorso di interazione vale ovviamente per tutte le altre persone che a mio modo di vedere dovrebbero partecipare alla formulazione della seduta, preparatore dei portieri, psicologo, pedagogista…

Ovviamente nelle società professioniste certe figure si ha la fortuna di averle, ma laddove invece questa possibilità, per ovvi motivi, non si ha, è necessario che certe competenze siano il più possibile racchiuse in una sola persona.

Giampaolo tempo fa affermò che “di pallone possono parlare tutti, ma di calcio pochi.”

D’accordissimo. E affinché si possa fare un passo in avanti è dunque necessario che la formazione degli allenatori avvenga sulla base delle conoscenze del gioco del calcio.

Per me i principi regolatori del gioco del calcio sono due: lo spazio e il tempo.

In qualunque modo tu voglia giocare, che sia un calcio di possesso, piuttosto che diretto o speculativo, lo spazio e il tempo sono i due principi fondamentali che ritroviamo sempre all’interno del gioco.

Per questo motivo insieme al mio gruppo di lavoro ho riconosciuto come uno dei principi di gioco più importanti, anche se in realtà si tratta di un sotto principio, la condizione numerica, cioè la capacità dei ragazzi di leggere la situazione numerica in una zona del campo.

Con questa capacità acquisita diventa molto più semplice per il giocatore capire come e dove indirizzare un attacco, e cioè dove ho maggior spazio e tempo.

Che tipo di esercitazioni si possono utilizzare per aiutare i giocatori a contare?

Intanto c’è da dire che questo tipo di esercitazioni si possono utilizzare anche con i bambini, anzi, con loro si hanno meno difficoltà di quanto si possa pensare.

Si possono per esempio utilizzare partite a settori, che aiutano la percezione nei giocatori delle zone con meno densità.

I settori giovanili hanno la funzione di creare il numero più elevato possibile di giocatori da far esordire nella squadra maggiore. Ci sono alcuni club, come l’Atletico Madrid o il RedBull Salisburgo che oltre a giocatori cercano di produrre anche allenatori, formandoli all’interno del club per poi avanzarli di categoria e, qualora li ritengano pronti, lanciarli fra i professionisti nelle loro squadre B o addirittura in Prima Squadra. Perchè questo in Italia non avviene?

Sono d’accordissimo con questo tipo di filosofia, negli anni in cui ero responsabile del settore giovanile al Milan abbiamo tentato di fare qualcosa di simile, il problema è che purtroppo, soprattutto qui da noi in Italia, arrivano sempre ingerenze dall’alto che fanno si che un giocatore della Prima Squadra che smette di giocare e decide di iniziare il suo percorso di allenatore dal settore giovanile, abbia sempre un certo privilegio.

Quello che però diventa molto importante è creare un coordinamento e un metodo di lavoro che coinvolga tutti gli allenatori, che non significa uniformare il pensiero degli allenatori ma formare tutte le figure professionali affinché tutte sappiano come si lavora all’interno di quel determinato club, con quali principi dentro e fuori dal campo, in modo che poi ognuno di essi possa coniugare il tutto sulla base della fascia d’età di sua competenza.

La preparazione degli allenatori poi deve essere inter-staff e intra-staff: troppo spesso infatti si pensa di essere responsabili della propria leva di competenza, senza sapere minimamente come lavorano le altre squadre.

Se davvero pensiamo in maniera sistemica, e quindi pensiamo che la persona sia un organismo complesso all’interno di un altro organismo complesso come è il settore giovanile, è chiaro che le interazioni tra persone diventa fondamentale per la crescita. Da qui l’esigenza di essere al corrente di tutto quello che accade all’interno del settore giovanile.

Quando ero al Milan e siamo andati a visitare i grandi club, Barcellona, Ajax, Anderlecht, quello che è venuto fuori è che gli allenatori ricevevano dal punto di vista della formazione continuità e coerenza di principi, e in questo contesto un allenatore si forma.

Questo non vuol dire che non ci sia diversità all’interno di questi settori giovanile, perché anche quelle sono importanti, ma è necessario che vadano tutte comunque verso i medesimi obiettivi.

In questo senso, un percorso formativo con principi di gioco identici per tutte le categorie, quanto aiuta effettivamente un giocatore e quanto invece rappresenta per lui un limite nel momento in cui esce dal contesto cui è abituato?

Io non penso che possa rappresentare un limite, soprattutto se questi principi seguono una certa idea di calcio, basata sulla scelta. Fino a che questo avviene non ritengo si possa parlare di limiti.

Nel momento in cui però non metto il ragazzo nelle condizioni di scegliere, come ha detto De Zerbi nel webinar organizzato dalla scuola allenatori, allora non lo sto più allenando.

Personalmente penso che se cresci in un contesto che stimola la scelta e il pensiero cognitivo, fare un cambiamento e passare a giocare in un contesto con una idea di calcio più speculativa, non è un processo lungo e difficile.

Quello che acquisisce un giocatore in un percorso di formazione basato sull'idea di comandare il gioco e sulla consapevolezza lo aiuta a leggere situazioni di gioco anche a livello difensivo.

Nella sua risposta precedente ha nominato l’Anderlecht. Come spiega il fatto che un Paese che fino a poco tempo fa era ai margini del panorama calcistico europeo come il Belgio, abbia prodotto negli ultimi anni molti più talenti rispetto a noi? Si tratta di un caso o dietro a questa generazione di fenomeni c’è di più?

No, non credo affatto sia un caso. C’è dietro un lavoro di sistema che parte dalle scuole e che da al bambino la possibilità di svolgere molte più ore di educazione fisica rispetto a noi, fornendo quindi molte più ore di attività motoria generale rispetto a quanto avviene da noi.

Noi in Italia siamo a livello europeo una delle nazioni che lavora meno in fatto di ore dedicate al calcio giovanile, per cui non possiamo far altro che andare a lavorare direttamente su una coordinazione specifica per il calcio.

Poi non tutto quello che viene dall’estero, anche da Paesi che in questo momento sono sopra di noi al ranking mondiale, come il Belgio, secondo me è perfetto.

Negli anni in cui ero al Milan, per esempio, abbiamo portato alcune esercitazioni proprio dall’Anderlecht, come le croci belghe, adattandole secondo quelli che erano i nostri obbiettivi ma da cui poi nel corso del tempo ci siamo staccati.

Questo esercizio in particolare, finalizzato allo sviluppo della trasmissione, ci permetteva di avere un certo numero di passaggi, maggiore a quello che si faceva in altre strutture che utilizzavamo, di avere corse più specifiche al modello della partita e di e certi tipi di soluzioni dovute non tanto alla presenza di un avversario ma ad un “traffico” all’interno dell’esercitazione. Col tempo però ci siamo accorti che si trattava più di una tecnica analitica applicata ad un regime di velocità inerente ai nostri principi di gioco, senza però al suo interno quello che più ci interessava, e cioè la capacità di scelta.

Quale è dunque la nostra posizione all’interno del panorama calcistico europeo? Siamo così indietro rispetto ad altre nazioni?

Io credo di si, siamo indietro e sembra che non ce ne vogliamo accorgere.

Quello che ci manca rispetto ad altri Paesi è un metodo, pensiamo che prendere un po’ da tutti sia la strada migliore, ma facendo così non lavoriamo in maniera sistemica, cosa che invece all’estero sanno fare.

E’ vero che ognuno apprende in maniera diversa, ma noi siamo ancora troppo legati all’idea che il bambino apprende per blocchi, passando dal semplice al complesso, soprattutto in età di base, e questo fa si che la nostra sia una metodologia obsoleta senza che ci sia voglia di cambiamento.

Fino a che non cambierà questo tipo di pensiero faremo sempre troppa fatica rispetto ad altri…

Posto che non esiste nessuna ricetta segreta che sia garanzia in tal senso, è molto chiaro quale lei pensa sia il percorso formativo ideale di un giovane calciatore perché possa avere più possibilità di avvicinarsi al calcio d’elite…

Si e questo lo credo perché, oltre ad un discorso teorico, abbia sperimentato sul campo la bontà di questo tipo di processo e non solo in un contesto in cui i giocatori venivano selezionati, perché tutto il percorso effettuato poi nel Milan lo abbiamo iniziato due anni prima nelle scuole calcio affiliate e ti posso garantire che tutte hanno avuto miglioramenti incredibili nei loro ragazzi.

E quello che è stato fondamentale in questo processo con le squadre dilettantistiche, non sono state le strutture o altro, ma la voglia di cambiamento e di mettersi in discussione degli allenatori e dei responsabili.

Ovviamente il cambiamento porta a paura e resistenze, ma avere il coraggio di andare oltre alle proprie conoscenze può portare a nuovi orizzonti inesplorati.

Questo penso sia quello che a noi in Italia manca maggiormente, il fatto di essere più aperti mentalmente e avere il coraggio di andare oltre alla propria zona di comfort…
Oscar Cano, per esempio, dice che lui non è mai contento quando un allenamento riesce esattamente come lui lo aveva immaginato, perché il calcio è incertezza e in quanto tale deve generare sempre qualcosa che lo sorprenda.

E’ esattamente questo. Nel momento in cui l’allenamento avviene in maniera perfetta, allora quello è proprio il momento in cui l’allenatore deve intervenire, cambiando e creando contesti di apprendimento più complessi per i miei ragazzi, perché altrimenti quello che succede è che si blocca il loro processo formativo.

Poi subentra il tema del talento, perché quando si preordina tutto all’interno dell’allenamento, tolgo la possibilità ad esso di esprimersi, dal momento che per antonomasia è creativo e conflittuale.

Spesso si tende a conformare la seduta e il talento, ma questo spesso è quello che ti sorprende.

Con chi ha questo tipo di caratteristiche bisogna saperci lavorare, con pazienza e attenzione.

In questo senso torniamo a quanto detto in precedenza riguardo a tutte le capacità che un allenatore deve avere.

Il talento è un qualcosa che si può costruire?

Il talento è innato, genetico. Non lo si può costruire ma si può mettere in condizioni per cui gli crei un set di apprendimento in cui si possa esprimere al meglio.

Quale potrebbe essere questo set di apprendimento?

Intendo principalmente esaltarlo all’interno di aspetti legati alle situazioni di gioco, in cui poter sviluppare l’aspetto della collaborazione in un clima di lavoro positivo.

Guardando a vari sport, noto come ci siano giocatori di altissimo livello nelle loro discipline che da un punto tecnico eseguono alcune gestualità in maniera errata rispetto a come la corretta meccanica di quel determinato movimento imporrebbe. Nel calcio penso a Skriniar, per esempio, che nel duello 1 contro 1 spesso assume una postura piatta, o a Maldini, che quando doveva difendere eseguire uno scatto per difendere la profondità veniva criticato perché si girava spesso dalla parte sbagliata dando la schiena all’avversario. Nel basket invece Stephen Curry ha un rilascio molto anticipato rispetto a quella che dovrebbe essere la corretta gestualità. Sento dire spesso che loro sono giocatori affermati e che quindi il paragone con il settore giovanile non si può fare ma ci si dimentica che anche loro hanno avuto il loro percorso formativo.
In questo senso, secondo lei, come è corretto approcciarsi? Bisogna intervenire cercando di modificare un atteggiamento tecnicamente sbagliato ma che produce un risultato perché così il giocatore diverrebbe ancora più forte o invece cambiando il suo modo di interpretare una gestualità faremo in lui un danno?

Io sono dell’idea che ogni giocatore debba trovare gli adattamenti migliori per un determinato gesto da sé.

L’allenatore deve metterlo all’interno della situazione e dargli le indicazioni necessarie affinché essa venga realizzata nel modo corretto, ma è poi il ragazzo che trova l’adattamento dentro di sé.

L’allenatore può cercare di inserire alcuni vincoli all’interno dell’esercitazione per portarlo ad effettuare un certo tipo di comportamento, ma tolto il vincolo devo verificare sempre che cosa ha appreso, inserendolo nella situazione. E se nella situazione, in cui il vincolo non lo ha più, continua ad avere lo stesso comportamento che intendiamo correggere ma lo fa in maniera efficace perché cambiarlo ad ogni costo?

Il rischio di volerlo cambiare a tutti i costi secondo me è proprio quello di perdere questa efficacia.