L’incontro con Cristian Aleza è stato fissato nel mezzo di una serie di conferenze per allenatori tenute insieme a Ruben Rossi in Messico. Allenatore UEFA PRO, la lista dei Paesi in cui la sua professionalità è stata richiesta appare infinito: Messico, Canada, USA, Panama, Cile, Perù, Uruguay, Ecuador, Colombia, Paraguay, Venezuela, Palestina, Giappone, India, Spagna, Polonia, Egitto, sono solo alcune delle mete raggiunte da Aleza per analizzare il fùtbol e, nello specifico, il tema della metodologia.
Formatosi all’Università di Zaragoza e alla FC Barcelona innovation Hub, le sue competenze variano dal campo, ex tecnico della Prima Squadra femminile del Zaragoza CFF con esperienze nel calcio di formazione in accademie come FC Barcelona e Atletico Madrid, alla cattedra. Con lui abbiamo trattato uno dei temi che, nell’ultimo periodo soprattutto, sta prendendo più piede, quello della metodologia appunto, cercando di affrontare insieme un’analisi di questo ruolo e di quella che dovrebbe essere la sua visione all’interno del gioco e della programmazione di lavoro.
Cristian, iniziamo a definire che cosa è un metodologo.
Quella del metodologo è una figura relativamente nuova, complementare a quella del direttore sportivo, che interviene per lo più nell’ambito del fùtbol formativo, piuttosto che nel calcio di alto rendimento. Il suo scopo è quello di orientare i formatori su come proporre una serie di mezzi affinché l’idea e l’identità del club possa apparire ed implementarsi nel percorso di apprendimento.
E’ importante precisare subito che non è il direttore metodologico a stabilire quale deve essere l’identità espressa delle squadre, quello è un compito che appartiene al direttore sportivo o che deriva direttamente dall’ideocrazia del club.
Il metodologo dovrà quindi adeguarsi agli obiettivi del club, ai modelli di comportamento offensivi e difensivi che si vuole che appaiano con maggior propensione all’interno del gioco e fornire, in seguito ad un preciso lavoro di osservazione, linee da seguire affinché gli allenatori possano creare, mediante la costruzione delle loro esercitazioni, ambienti favorevoli all’apprendimento.
Esiste una connessione fra il metodologo e il modello di gioco?
Si, in un certo senso. Il modello di gioco è il macro concetto, è la rappresentazione pratica dell’idea del club, è la via, una variabile che ci serve per identificare i comportamenti dei giocatori all’interno dell’organizzazione in spazi del campo differenti.
Il lavoro del metodologo in questo senso diventa più ampio nel caso in cui egli opera in un ambito dove non esiste una struttura di scouting forte ed organizzata, in cui vengono ricercati giocatori di un certo tipo. In contesti più eterogenei dovrà necessariamente trovare per ogni gruppo il suo modello di gioco ideale per l’apprendimento.
In precedenza hai fatto una distinzione molto chiara, fra il direttore sportivo, che è a capo di tutta la filiera e il direttore della metodologia, identificabile come “l’allenatore degli allenatori”. Come si allena un allenatore?
Prima di tutto attraverso il confronto, che deve essere il più costante possibile.
Secondariamente utilizzando il concetto di riflessione, cercando di fare in modo che gli allenatori, partendo dalle loro conoscenze e dalle loro abilità, possano incorporare nuove situazioni in grado di aprirgli nuove percezioni o prospettive.
Nel lavoro quotidiano il direttore della metodologia deve essere una figura invisibile ma tangibile: non partecipa mai in maniera diretta al lavoro quotidiano sul campo, ma dovrà fornire agli allenatori, prima o dopo la seduta, feedback costanti sul lavoro sotto forma di correzioni o rinforzi.
E quando parlo di lavoro, sia chiaro, non parlo prettamente del tipo di esercitazioni proposte, ma dei comportamenti dell’allenatore, delle modalità di guidare l’allenamento, della libertà di scelta e di comportamenti che viene data ai giocatori.

Quali sono i parametri che il metodologo deve tenere in considerazione nel momento in cui fornisce i suoi feedback all’allenatore?
In prima luogo, come abbiamo detto precedentemente, il modello di gioco. Il modello di gioco ci fornisce delle informazioni attraverso le quali riusciamo a comprendere con maggior efficacia quanto siamo vicini o lontani, nella pratica, dal raggiungere quelli che sono i comportamenti preferenziali che intendiamo implementare nei ragazzi con cui lavoriamo.
In più fornisce nozioni utili per giudicare la capacità di critica, di analisi e di intervento dell’allenatore stesso per variare situazioni di gioco che creano al giocatore una maggior ricchezza a livello concettuale. Perchè è vero che è il giocatore a creare il concetto stesso, ma lo è altrettanto il fatto che è l’aver vissuto una maggior ricchezza di contesti – con più o meno spazi, con più o meno tempo, giocato in diverse altezze del campo e con diversi compagni e avversari – a formare il giocatore stesso.
Il metodologo più del “cosa” dovrà sempre valutare il “come”.
Quello che hai appena specificato penso che sia una differenza molto sottile ma importante. Ogni tanto mi sembra che ci sia molta confusione nel concetto di “metodologo”. Mi spiego meglio: talvolta sembra che basti avere un’ “idea di gioco” – concetto diverso da quello di “modello di gioco” – ben definita da poter sviluppare e principi di attuazione pratica sul campo per definirsi tale. Quando però, le materie che un allenatore di allenatori dovrebbe saper padroneggiare sono, a mio avviso, molte altre: come funziona l’apprendimento, i principi dell’interscambio di informazioni, i principi della direzione dell’allenamento e della conduzione delle partite, saper maneggiare i rinforzi positivi o negativi…
Vero. Il direttore metodologico è il garante e lo sviluppatore del metodo del club e in quanto tale le sue competenze devono essere trasversali. Prima il metodo veniva per lo più sviluppato da un punto di vista scientifico. Più analisi di dati, quantificazioni, concetti statici. Adesso invece la visione del gioco e del metodo è diventata molto più olistica, e con essa anche le competenze del ruolo, ovviamente.
Il metodologo deve essere “centrato” sulle differenti tappe del percorso formativo e sulle componenti cognitive, coordinative, motrici, socio affettive, tecniche, tattiche che caratterizzano ogni fascia d’età. Le fasce d’età più piccole sono quelle in cui il metodologo è solito proporre la maggior quantità di concetti, che sono per lo più “micro”, a livello organizzativo della seduta di allenamento, fermo restando che poi sarà l’allenatore il protagonista in campo. Il metodologo sarà l’orientatore del lavoro, mentre l’allenatore sarà il suo riflesso in campo.
Proviamo a identificare quali sono, a livello metodologico, le caratteristiche di ogni fascia d’età.
Organizzo la risposta, che presuppone un pensiero decisamente ampio, all’interno di tre frasi:
in età iniziale sono fondamentali la percezione e la tecnica individuale e situazionale, intesa come finalizzata per un obiettivo;
nella tappa centrale diventa importante tutto ciò che concerne l’organizzazione spazio e tempo, vale a dire sapere quando giocare rapido o quando avere una pausa, quando giocare ad un’altezza del campo piuttosto che ad un’altra, quando e come sfruttare una determinata ampiezza;
nell’ultima tappa del percorso formativo si tratta invece maggiormente il concetto di strategia operativa e di fase sistemica. E’ una tappa in cui si cerca di ottenere situazioni di gioco di vantaggio sugli avversari, che fanno parte in maniera molto più tangibile rispetto al prima del contesto di apprendimento e di allenamento.

E’ possibile identificare una fascia d’età definita per ciascuna di queste fasce?
Dipende molto dalla qualità delle squadre. Le squadre U16 di società professionistiche possono in alcuni casi essere già considerate all’interno della fascia in cui i principi collettivi del gioco sono rappresentati in maniera maggiormente strategica, ma questo può non valere in squadre della stessa età in un contesto di livello più basso.
Lo stesso discorso vale anche per la fascia iniziale. Dipende molto dall’ambiente, dal Paese e della cultura sportiva. Ci sono Paesi in cui i club non competono a livello competitivo fino ai 10-11 anni, o club, come il Real Zaragozza che non hanno squadre al di sotto della U11.
Addentriamoci all’interno della costruzione e dell’organizzazione delle sedute d’allenamento. Definiamo il concetto di “esercitazione”.
L’esercitazione è una situazione di miglioramento del giocatore. E’ l’allenamento di una situazione di gioco caratterizzata da un ambiente in cui il giocatore si relazionerà con compagni ed avversari e da un obiettivo preteso che l’allenatore pretende sempre rispettando però quello che accadrà.
Quando si costruisce un'esercitazione c'è un parametro fondamentale da tenere in considerazione che troppo spesso viene trascurato ma che invece deve essere necessariamente incorporato nei nostri allenamenti e sto parlando delle emozioni, dell'aspetto emozionale dei bambini o dei ragazzi.
Tenendo in conto tutto questo, l’obiettivo delle esercitazioni sarà sempre quello di migliorare una situazione di gioco attraverso aspetti collettivi, come il comportamento durante una delle quattro fasi del gioco per esempio, o aspetti micro, come il profilo posturale di ogni singolo calciatore, avendo però la piena consapevolezza del fatto che all’interno di essa appariranno altri comportamenti non preventivati che l’allenatore dovrà rispettare e tenere in considerazione.
Come si incorpora questa parte di controllo emotivo durante fase di preparazione dell’esercitazione?
Sono un amante del tema della complessità, e grazie a questo paradigma sappiamo che non esistono situazioni lineari nell’apprendimento. Le emozioni seguono lo stesso concetto: il bambino non si comporta mai alla stessa maniera durante il processo di apprendimento. Ci sono momenti o giorni in cui un bambino può essere molto allegro, ed altri in cui non lo è per niente; altri momenti in cui il bambino è molto espressivo ed altri in cui è frustrato.
L’allenatore può cercare di modulare questo fattore incontrollabile attraverso le regole delle proprie esercitazioni, affinché le situazioni stressanti e quelle più fluide possano equilibrarsi o disequilibrarsi. Per poter regolare queste regole di costrizione è necessario, prima di tutto, che il tecnico conosca i suoi giocatori e i suoi fattori personali, a livello di attitudine, di emozioni, ma anche fisico. Poniamo l’esempio di una situazione di allenamento in cui stiamo allenando l’uno contro uno laterale con palla che arriva da un cross, e io allenatore faccio marcare al mio difensore centrale un attaccante si 10 centimetri più alto di lui: è possibile che l’eccessiva difficoltà che egli dovrà gestire, lo condizionerà a livello emozionale in maniera negativa, compromettendo il suo apprendimento. In un caso del genere l’allenatore potrà regolare l’esercitazione inserendo la regola per cui il cross dovrà essere necessariamente basso, per esempio.
Secondariamente, l’allenatore dovrà essere in grado di gestire i fattori ambientali dell’esercitazione stessa ed assumere uno stile di condotta che sia adatto agli obiettivi desiderati. Non tutte le esercitazioni richiedono un atteggiamento deduttivo così come, allo stesso modo, non tutte richiedono uno stile direttivo.
Terzo, al fine di controllare la parte emotiva, è fondamentale saper controllare l’esercitazione stessa. La dimensione, intesa non solo in termini di spazio, ma anche di relazioni è importantissima. Dover gestire una situazione di inferiorità o di superiorità numerica è molto differente a livello emozionale. Allo stesso modo dover difendere 5 contro 5 in spazi ridotti non è la stessa cosa di doverlo fare con 25 metri di profondità attaccabile alle proprie spalle. Saranno diversi i fattori tecnici, i fattori fisici e, dunque, anche quelli emozionali.
Ancora, la comunicazione dell’allenatore. Fondamentale. Ci sono occasioni in cui è la natura dell’esercitazione stessa ad essere motivante, altre in cui è necessario che sia l’allenatore, attraverso il suo linguaggio verbale e non non, a dover motivare i suoi giocatori e dare loro rinforzi positivi.
Al giorno d’oggi esistono molti dati quantitativi a disposizione dell’allenatore per l’analisi dell’allenamento o delle partite. Esiste un parametro che possa quantificare l’apprendimento pedagogico dell’allenamento?
Io credo di sì. Non tanto in una singola unità esercitativa quanto, soprattutto, all’interno di un microciclo. La base di un controllo pedagogico deve avvenire attraverso l’osservazione e l’analisi a livello collettivo ed individuale della propria squadra.
“I giocatori della mia squadra tendono maggiormente a relazionarsi o a giocare dietro la linea di pressione? Preferiscono giocare dentro o sviluppare su linee esterne?” Partendo da un’analisi di questo tipo, ed avendo ben chiara la base di partenza, è possibile identificare come e quanto un comportamento o un’azione di natura differente viene elaborata e messa in pratica in funzione del nostro modello di gioco. Allo stesso modo possiamo avere anche indicatori emozionali: la mia squadra ha confidenza e sicurezza in fase di costruzione? La mia squadra tende a rischiare la giocata in situazioni di blocco avanzato della squadra avversaria?

Come si controlla la complessità di un’esercitazione?
Con la presa di decisione e la complessità degli stimoli.
Ridurre gli spazi, aumentare il numero di interazioni relazionali, lasciare spazi liberi da occupare, inserire principi complessi come “fissare i giocatori avversari”, sono solo alcuni esempi di elementi che causano uno stress ai nostri giocatori, in maniera positiva o negativa. Gli elementi in grado di controllare la complessità di una proposta sono molteplici: proporre un gioco di progressione, non è la stessa cosa di un un gioco di posizione o un gioco di situazione o un rondo. Credo che la complessità la creano le relazioni fra giocatori, ed è li dove dobbiamo intervenire, osservando e variando: aumentiamo lo spazio, includiamo comodini, cambiamo regole di provocazione.
Le regole di provocazione a livello tecnico, numerico, zonale, socio-affettivo regolano molto la complessità del gioco.
In questi casi solitamente il giocatore pensa molto più alle regole da dover seguire che al gioco in sé.
Facciamo un passo indietro. Hai toccato il tema della comunicazione dell’allenatore. Nello specifico, come dovrebbe essere l’intervento di un allenatore all’interno delle esercitazioni di allenamento?
E’ un tema molto ampio, con molte sfumature. Dipende prima di tutto, come tante cose, dal gruppo con cui si lavora. Esistono gruppi che devono essere maggiormente guidati ed altri meno. Ogni allenatore deve essere in grado di modulare la quantità di informazioni inviate e, soprattutto, la qualità delle stesse. Tendenzialmente meno partecipa e meglio è, però è necessario che in quelle poche volte che interviene non lo faccia con evidenze del tipo “molto bene”, ma con domande aperte che stimolino la meta apprendimento di ogni giocatore.
Aimar dice che ci sono giocatori che giocano senza conoscere le conseguenze di ciò che stanno facendo in campo. E’ necessario che l’allenatore riesca a capire ed intervenire all’interno del contesto esercitativo per stimolare la coscienza individuale di ciascuno.
Aimar ha espresso anche un’interessante pensiero sul ruolo dell’allenatore. Spesso si confonde l’allenare con il concetto di “controllare qualcosa”, quando però non ha nulla a che a fare con il controllo, ma con l’apprendimento. Personalmente, credo che una delle più grandi capacità di un allenatore in fase formativa sia quella di mantenere un approccio pedagogico sempre, anche in partita.
Totalmente d’accordo.
In ambito formativo la partita è un po' come “Dottor Jekyll e Mister Hyde”.
Il fatto che tu abbia un risultato, un compromesso, che in qualche modo identifica quella squadra nell’immagina pubblica, molto spesso modifica la squadra stessa e, con sé, anche l’allenatore: nel contesto della gara si utilizza di più l’imperativo piuttosto che il condizionale, e le domande diventano risposte, talvolta ordini.
E’ fondamentale contestualizzare sempre l’ambito in cui ci troviamo. Talvolta si tende a riprodurre quello che fanno i grandi allenatori ma quello che loro fanno è possibile perché glielo concede il contesto. Ti faccio un esempio. Nel calcio di alto rendimento si verificano situazioni di allenamento in cui gli automatismi sono più graditi dai giocatori, perchè desiderano sapere quale è il loro ruolo in campo in ogni situazione di gioco, con palla e senza. Questo è il motivo per cui in molte sedute si vedono anche proposte di alcune situazioni di gioco, come la costruzione dal basso o l’attacco di un’ultima linea per esempio, eseguite in maniera analitica. Nel fùtbol base invece è totalmente differente: dobbiamo creare sempre variazioni, varietà e variabilità. Variazioni di stimoli, varietà di esercitazioni o situazioni simulatrici e variabilità di risposte differenti in funzioni dell’ambiente.
Se poi analizziamo gli interventi degli allenatori durante la partita noteremo come molto spesso, se non quasi sempre, l’attenzione è posta al giocatore in possesso o in prossimità della palla. Ma se analizzassimo il gioco dalla prospettiva della teoria degli spazi di fase di Paco Seirul.lo sapremmo che nello spazio di intervento il giocatore non può essere ricettivo alle informazioni come invece è negli spazi più distanti dalla palla, lo spazio di mutuo aiuto e lo spazio di cooperazione. A chi dovremmo rivolgerci dunque se vogliamo che le nostre informazioni vengano interiorizzate? A chi sta lontano dalla palla.
Senza contare che durante il gioco, coloro che garantiscono continuità di sviluppo all’azione sono i giocatori senza palla, e quindi l’attenzione dell’allenatore verso le loro posture, i loro posizionamenti o i loro comportamenti assume ancora più rilevanza.
Assolutamente. E, aggiungo, lo sono tanto quelli davanti alla linea della palla quanti quelli dietro. Giocare all’indietro non comporta un vantaggio immediato, ma può generare un vantaggio futuro.

Torniamo per un momento al tema iniziale della metodologo e della metodologia in generale. Esistono differenti modi di giocare ed arrivare ad un obiettivo. Prendiamo come esempio alcune cantere spagnole che, tu lo sai meglio di me, hanno una identità forte e ben definita. Il Barcellona con il suo gioco posizionale, l’Atletico Madrid con il suo stile solido e difensivo e l’Atletico Osasuna che gioca un calcio molto diretto, anche a livello giovanile. Quanto può essere alto il “rischio” che un giocatore che si forma attraverso i principi di uno di questi club si identifichi solo in quel modo di giocare?
Le situazioni contestuali sono segnate dall’idea che si desidera trasferire in maniera prevalente nell’insegnamento-apprendimento e da come, partendo dall’organizzazione, i giocatori scoprono delle possibilità. Ogni ambiente è caratterizzato complessità e non linearità, per cui quello che accade quando un giocatore si immerge in un contesto diverso è che “semplicemente” vivrà esperienze diverse ed altre che invece saranno comuni. Entrambe inavvertitamente lo condizioneranno ad una trasformazione e a nuove relazioni di gioco. Semplicemente ci adattiamo.
Ci saranno giocatori che, per cultura di gioco e polifunzionalità, si adatteranno prima e ci saranno altri che dovranno re-imparare, dalle proprie abilità, azioni del nuovo contesto. L'importante sarà che l'allenatore abiliti e accresca il giocatore affinché si evolva e non subisca ritardi nel suo percorso verso la completa maturazione.
Un’ultima domanda Cristian. Nel tuo percorso hai allenato anche nel calcio femminile. Quali sono le grandi differenze con il calcio maschile a cui hai dovuto far fronte?
Dipende molto dalla formazione pregressa. In Spagna negli ultimi anni si sta svolgendo un buonissimo lavoro in età formativa, ma nel mio caso, quando ero a Zaragoza, ho diretto un club di alto rendimento senza una formazione adeguata alle spalle. Era un calcio più anarchico, di strada, di ragazze che non avevano un passato in accademie importanti.
In questi casi sapersi adattare al contesto ed al livello del proprio gruppo è fondamentale.
A livello generale la forma di allenare è assolutamente identica, ma è ovvio che, nello specifico, ci sono alcune aree che presentano delle differenze “strutturali” da dover rispettare e a cui adeguarsi, a livello fisico, motrice, cognitivo, emozionale.
Nelle ragazze l’area socio-affettiva è molto più sviluppata, hanno un senso di appartenenza maggiore ma hanno anche più bisogno di sentirsi valorizzate. Per me era dunque molto importante fare attenzione al tipo e alla quantità di rinforzi positivi che davo alle mie giocatrici.
